Il viaggio del colonnello Gheddafi nel nostro Paese provoca commenti, reazioni e fa riflettere. Per il fatto in sé e per i 'casi' che sta suscitando a ripetizione, l’ultimo ieri a motivo dell’incredibile ritardo (poi motivato diplomaticamente dai portavoce del leader libico) che ha portato all’annullamento del convegno che avrebbe dovuto tenersi alla Camera dei deputati. Ed è bene che ci si ragioni su, perché l’Italia ospita uno scomodo personaggio di rilievo con cui ha stipulato un trattato che dovrebbe chiudere con il passato e proiettare nel futuro, sulla base di impegni reciproci, i rapporti tra due Paesi dirimpettai. È necessario, però, sfuggire a tentazioni sensazionalistiche di opposta sponda, e ragionare sui termini reali delle relazioni tra Italia e Libia. Certe proteste e manifestazioni anti-Gheddafi sottolineano l’assenza di democrazia in Libia, le responsabilità di Tripoli in tanti fatti ed eventi delittuosi del passato, ma dimenticano l’altra faccia della medaglia. Cioè il cambiamento, intervenuto negli ultimi anni, della politica libica verso l’Italia, il terrorismo, gli stessi Stati Uniti d’America. Ma anche le manifestazioni di segno opposto che esaltano acriticamente l’evento e la persona in visita, negano le distanze tra democrazia e dittatura e magari subiscono il fascino indiscreto di chiunque profumi di antiamericanismo, dimostrano leggerezza, scarsa capacità di analisi e insensibilità per la tutela dei diritti umani. La sostanza della questione che abbiamo di fronte è che il trattato dell’Italia con la Libia (con i limiti che ha ogni accordo del genere) testimonia un cambiamento di questo Paese almeno su alcune questioni. Il rifiuto del terrorismo nello scacchiere internazionale, che ha portato anche al riconoscimento di responsabilità in vicende terribili come quella dell’attentato aereo di Lockerbie. Il rifiuto del sostegno a spericolate missioni militari, più o meno ufficiali, fuori e dentro l’Africa. L’impegno di Tripoli (da verificare nel tempo) di frenare i mercanti che utilizzano la spinta all’emigrazione per un commercio umano che sfocia nello sfruttamento, nel sangue, nella morte di chi spera in qualcosa che non verrà. La determinazione (altrettanto da verificare) di concordare con Roma azioni comuni contro l’immigrazione irregolare, assicurando al contempo i diritti fondamentali a chi approdi sul suolo libico. A tutto ciò si deve aggiungere la fine delle rivendicazioni per il passato coloniale italiano, che si protraggono da un tempo così lungo da apparire irreale e che comunque richiedono una valutazione intelligente. Sono questi i termini di un accordo che ha un valore di svolta, se si pensa che per decenni la Libia ha avuto un ruolo destabilizzatore, e che assume un significato notevole per tutta l’area mediterranea. Si tratta, dunque, di un evento a cui guardare non secondo una fredda 'ragion di Stato', ma come a un passaggio chiave al quale i governi italiani stavano aspirando da decenni seguiti dallo spesso tacito interesse di altri Paesi occidentali. Se questo è il significato di un Trattato che dovrebbe garantire stabilità politica, e inversione di marcia nel commercio degli schiavi, è evidente che si deve pagare un prezzo, si deve sacrificare qualcosa. Questo prezzo non consiste certo nell’esercitare la pazienza per intemerate verbali, reprimende storiche fantasiose, sfide al nostro orgoglio nazionale: questi sono eccessi in parte possibili nelle relazioni internazionali, non sempre intessute di cortesie in stile anglosassone. Se mai, si dovrà per il futuro dare a viaggi importanti come quello di questi giorni una dimensione proporzionata all’evento, e ai sentimenti nazionali e ideali che hanno pure un loro significato. Il vero prezzo che dobbiamo pagare è l’impegno a vedere onorato un accordo che promette un cambiamento, perché seguano i fatti, perché ci si convinca in Italia che ha contenuti buoni, crea stabilità, potrà essere di esempio nel Mediterraneo per le relazioni bilaterali, in Europa per una politica dell’immigrazione che, insieme all’accoglienza, stronchi una buona volta le indegne tratte di esseri umani. Se così non fosse, l’intero giudizio andrebbe rivisto e registreremmo un fallimento non indifferente. Ma se il Trattato darà buoni frutti, coronando gli sforzi fatti dai governi italiani per decenni, anche qualche smagliatura, o sproporzione nel sinallagma tra le parti, potranno farsi rientrare nella logica di quegli accordi stipulati da soggetti molto diversi, e distanti. Una considerazione finale, invece, riguarda la tutela dei diritti umani, che l’Italia è chiamata a tutelare sempre e dovunque con gli strumenti propri del diritto internazionale, e con una incessante opera promozionale che non ha confini. Deve essere chiaro che l’Italia è chiamata a proseguire nel suo impegno internazionale, senza remore o vincoli che le derivino da specifiche relazioni bilaterali.