martedì 15 dicembre 2009
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Hospice è una parola dolce, hospice è una parola dolorosa. È nel cuore che tutto si contiene, che tutto si consuma. La fede, è l’identica e suprema ragione dell’amore Dice accoglienza, dice persino un abbraccio, se si intende che le cure 'palliative' che vi si praticano prendono nome dall’immagine di un mantello ( pallium) che avvolge e ripara, conforta e riscalda, e umanamente rincuora. Ma dice dolore perché l’incontro avviene oltre il confine della speranza, se la speranza si identifica nella guarigione, non più raggiungibile. E maggiormente scava il dolore, dentro gli affetti, a mano a mano che affiora e si fa cosciente il pensiero, sempre rintuzzato d’istinto, che infine non c’è porta che chiuda più fuori il bussare della morte. La morte, ecco l’altra parola. La morte come nemica della vita, qual è. La morte temuta, la morte combattuta dalle risorse inventive e stupende della scienza, della medicina, della farmacopea. La morte sfidata e tenuta in scacco, la morte rimontata dalle tecniche rianimatorie, dalle terapie di sostentamento vitale. Quanto è grande la gioia delle guarigioni, della vita che riprende respiro e vigore. Ma pur sempre un’ombra all’uscio, la morte, che torna a bussare prima o poi, e segna dunque un destino, una clessidra che macina, poca o tanta, una sabbia finita. Allora il problema umano si rovescia, se è l’uomo che vuol capire che cos’è la sua morte, anziché sia la morte a ghermirlo senza che lui l’abbia capita. Capìta, sì, incontrata, 'vissuta' mi verrebbe da dire, quando essa è venuta. Sì da poter dire, alla nemica, la parola dell’incandescente sapienza, intuita e cantata da san Francesco, la parola che saluta 'sorella morte'. Io ora penso all’hospice così, alla cura della vita dentro l’accoglienza d’un mantello che lenisce il dolore, dominando quello fisico, addolcendo quello psichico, facendo 'compagnia' al cammino che non ha più possibilità di contrastare un appuntamento annunciato. Una compagnia intensa, quasi coinvolgimento profondo sulla soglia del mistero, che immette alla verità e al senso stesso della vita vissuta, dei suoi compiti assolti, delle sue gioie e dei suoi pianti, quando il grembo della morte la trasloca nell’oltre. Una presenza affettuosa che è in sé una sorta di radicale orazione al Dio della vita, una speranza nella Vita. Ieri il Papa ha visitato un hospice di Roma che cura malati di cancro in fase terminale, e malati di Alzheimer e di Sla. Nel suo discorso breve, fortemente affettuoso, io ora leggo un punto di dottrina e un punto di vita, incrociati. Tra i concetti, la dignità umana contrapposta alla 'mentalità efficientistica' che fa dei deboli un peso, mi sembra un lampo che squarcia gli inquieti orizzonti scuri sul fine-vita di tutti, che taglia corto sui quesiti fittizi e atroci di chi sarebbe degno o indegno di vivere. Ma al dunque, la verità vissuta è poi quella dei «gesti concreti dell’amore». Rileggo, lentamente, le parole del Papa. Mi sembra di capire che il 'coraggio' è una parola imparentata con 'cuore'. La vita, la morte, tutto l’insieme, tutto il vivere, anche il 'vivere la propria morte', il capire perché si muore, il sapere in fede che la vita è più grande del transito. È nel cuore che tutto si contiene, che tutto si consuma, che la verità è accolta e amata; che accolti e amati sono tutti i viventi, nella stagione della vita e nel passaggio della morte. La fede, infine, è l’identica e suprema ragione dell’amore.
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