Un arbitro consulta il Var - Ansa
Borges ha scritto che ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio. Meno romanticamente invece il calcio l’hanno inventato loro, gli inglesi. E, come molte altre cose che guardano da una prospettiva diversa, gli inglesi non sopportano l’idea che possa cambiare. Così il 6 giugno le squadre di Premier League, l’equivalente (ma con più soldi) della nostra Serie A, voteranno per abolire il Var, il sistema che prevede la presenza di un altro arbitro in una sala video che può rivedere le azioni alla moviola e da varie angolazioni, e richiamare l’arbitro di campo quando pensa che possa aver sbagliato una decisione. Solo per alcune tipologie di situazioni, però. Perché complicarsi la vita è una specialità alla quale pochi sanno rinunciare.
Il voto è stato chiesto dal Wolverhampton: affinché passi l’abolizione, servirà la maggioranza dei due terzi dei club. Come scrive Bbc Sport, nel campionato inglese la percentuale di decisioni corrette prese dall’introduzione del Var è salita dall’82 al 96%. Nonostante questo, ci sono stati errori evidenti che il Var avrebbe potuto segnalare o gestire meglio. Fatti loro, verrebbe da dire. Da noi, dove il calcio è la cosa più importante delle cose non importanti (questa è di Arrigo Sacchi), sul Var – o sulla Var, nemmeno su come chiamarla c’è certezza – e sulle decisioni arbitrali si litiga ancora volentieri. Ma non siamo così evoluti da mettere in discussione uno strumento che quelle discussioni avrebbe dovuto azzerarle. Ma ciò che più colpisce è la motivazione di fondo che il Wolverhampton ha indicato nel suo comunicato: «Il prezzo che stiamo pagando per un piccolo aumento della precisione è in contrasto con lo spirito del gioco».
“Spirito” e “Gioco”, che belle parole. Arcaiche, profonde, lontane dal pallone che ha smesso di accoppiarle a sé non molto tempo dopo quel dicembre del 1863 quando Ebenezer Cobb Morley per la neonata Football Association scrisse le regole di questo passatempo per nobili: erano solo 14. Ed era vietatissimo essere pagati per giocare.
La scienza più inesatta tra le scienze inesatte, però, da sempre prevede l’esistenza dell’errore dell’arbitro. Anzi, lo ha sempre sopportato come un difetto congenito, accettabile anche quando non lo sarebbe. Come se fosse la quindicesima regola. Poi sono arrivate le vagonate di milioni, le televisioni che lo hanno schiavizzato. E la convinzione che sbagliare fosse inammissibile di fronte a tanti interessi. Da qui è nata la necessità di affidarsi alla tecnologia, salvo poi accorgersi che nemmeno quella è infallibile. In realtà, il problema sta nel modo in cui viene usata: gli errori non avvengono a causa del Var, ma eventualmente degli arbitri che lo adoperano in modo non adeguato. L’uomo ancora al centro, insomma. Per fortuna, anzi no. Perché quando il direttore di gara era uno solo piovevano insulti e sospetti, ma era “il signor” Lo Bello da Siracusa. Che sbagliava magari, ma veniva più o meno rispettato. Oggi le partite sono giudicate da una commissione parlamentare: quattro in campo, due davanti al monitor, una agguerrita mezza dozzina armata di droni, linee, segnalatori di nasi e natiche sporgenti che determinano fuorigioco infinitesimi. E che sbagliano lo stesso. O meglio non convincono che le loro scelte siano esatte. Basta (volendo) scegliere un’immagine piuttosto che un’altra da far vedere al popolo in spasmodica attesa, un “frame” preso una frazione di secondo prima o dopo. Che cambia tutto, lasciando l’impressione che non sia cambiato niente.