venerdì 18 marzo 2011
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È probabile che alcuni, anche se pochi, laicisti non gradiscano troppo il fatto che la Chiesa (e ai suoi massimi livelli) stia intervenendo esplicitamente, senza ritrosie, ambiguità o timidezze, per sottolineare la sincera adesione dei cattolici ai festeggiamenti per l’unità d’Italia, ribadendo, se mai ce ne fosse ancora bisogno, non solo il loro concreto e storicamente indiscutibile apporto al processo risorgimentale, ma ancor più la loro adesione ideale alla costruzione di una comunità caratterizzata non solo politicamente, ma moralmente e spiritualmente. Ma è proprio di questo che oggi è più che mai urgente parlare, del fatto cioè che se la politica può (legittimamente) dividere gli italiani (spesso purtroppo al di là di ogni giusta misura), la cultura, la religione, l’etica e la spiritualità li hanno uniti e continuano ad unirli, ormai indissolubilmente. Questo è il punto fondamentale. Come ha detto il cardinale Angelo Bagnasco ieri, nell’omelia pronunciata a Roma a Santa Maria degli Angeli alla presenza del presidente della Repubblica, delle più alte cariche dello Stato e dei presidenti delle Conferenze episcopali regionali abbiamo avuto «la grazia di appartenere a un popolo, di avere una storia e un destino comune, di avere un volto: di non essere civilmente orfani»: non dobbiamo dimenticarcene e dobbiamo ringraziarne Dio.Non c’è dubbio che il Risorgimento abbia avuto diverse anime e non tutte coerenti tra loro. Una delle idee guida dei patrioti risorgimentali (e sicuramente la più caduca) consisteva nell’appassionato desiderio di dare vita, costruendo uno Stato unitario, a una nuova Italia capace di entrare nel concerto europeo come una grande potenza, non inferiore, né idealmente né materialmente, a nessun’altra. Un desiderio nobile, ma pericoloso, perché tale da stravolgere quello che c’è di veramente buono nel patriottismo, deformandolo nel nazionalismo. È in questa chiave che va purtroppo letta gran parte della storia d’Italia nei decenni che sono seguiti all’unificazione, caratterizzati da aneliti irredentistici (a volte giustificati, a volte no), colonialistici (difficilmente giustificabili) e militaristici (assolutamente ingiustificabili). Non possiamo dimenticarci che nei convulsi mesi che precedettero l’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale (da molti qualificata non a caso come la quarta guerra di indipendenza), la posizione di alcuni tra i più accesi nazionalisti era che l’Italia non potesse restare neutrale e dovesse comunque entrare in guerra: poco rilevava se a fianco della Francia e del Regno Unito o a fianco delle potenze centrali. Per quella che si voleva fosse riconosciuta come una grande potenza, l’autoaffermazione militaresca era da ritenere alla stregua di un vero e proprio imperativo categorico.Le parole del presidente della Cei nell’omelia di ieri ci aiutano a individuare l’unica corretta chiave di lettura delle celebrazioni del 17 marzo, una chiave "patriottica", che deve restare immune da inquinamenti nazionalistici. Riprendendo le parole del Papa, il cardinale ribadisce che l’unificazione «è il naturale sbocco di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo». Un’identità «plurale e variegata», in cui convivono peculiarità e tradizioni che si sviluppano in modo «armonico e solidale». Raccordando le parole del Vangelo all’esperienza storico-sociale del processo di unificazione, Bagnasco insiste nel rammentare «una delle grandi regole di ogni comunità, la legge della relazione». E conclude che «la nostra vera identità sta nel legame». L’unità italiana, quella che abbiamo non solo il diritto, ma il dovere di celebrare, non è quindi quella declinabile in una logica narcisistica, quale quella della potenza politica, fortemente aggregante all’interno, ma aggressiva e conflittuale all’esterno, bensì in quella ben diversa logica che è volta a raccoglie le forze di un popolo per esaltarne la solidarietà e la capacità di crescita.È per questo che il presidente della Cei, nel ricordare e nel tornare a elogiare il «sano agonismo della libertà», tanto caro a Sturzo, gli affianca un’altra parola chiave, quella dell’«operosità». L’operosità, infatti, richiede, per sviluppare tutte le sue potenzialità, solidarietà, sinergia, collaborazione e soprattutto, in buona sostanza, unità. Un’unità operosa degli italiani, un’unità che non può che svilupparsi nel segno della giustizia e della pace, è quella che tutti vogliamo celebrare e continuare a promuovere.
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