I tifosi del rugby li riconosci dal look. Arrivano allo stadio a piedi con la faccia dipinta e il maglione a strisce orizzontali, di quelli che ingrassano anche gli smilzi. I tifosi del rugby li riconosci dall’umore. Cantano l’inno toccandosi il cuore ma festeggiano anche se hanno perso, asciugandosi le lacrime con la stessa mano che applaude il vincitore. La loro Europa ha per capitale lo stadio di Twickenham, nasce in Inghilterra e finisce in Francia, toccando Irlanda, Galles e Scozia. Treviso, Rovigo, Parma, L’Aquila i punti cardinali italiani. Ma il cuore è lontano, oltre l’Oceano, vola in Sudafrica e poi ancora più in là, in Australia e Nuova Zelanda. La patria dei mitici All Blacks è la loro Eldorado, l’
haka, la danza propiziatoria maori, la colonna sonora mille volte provata nelle partitelle con gli amici. È un po’ quel che accade nel calcio con il Brasile. Magari non sai chi è il portiere dell’Udinese però conosci tutto di Ronaldo e Kakà, sei cresciuto con il mito di Pelè e di Zico, vivi a Belluno ma tifi Santos o Flamenco. Ecco perché l’arrivo a Milano degli All Blacks è molto più che una partita di rugby. È l’incontro tra una nazionale, quella italiana, e un mito. L’incrocio tra la realtà e il sogno, che un architetto stravagante ha collocato in un piccolo Paese lontano e poi l’ha tutto colorato di nero. Gli appassionati, ma non solo loro, l’hanno capito intasando le prevendite. Tutto esaurito, 77mila biglietti venduti per l’amichevole di sabato pomeriggio a San Siro, il primo dei tre test autunnali che vedranno impegnati gli azzurri anche contro gli Springboks sudafricani campioni del mondo e le Isole Samoa. Partite importantissime ma non eventi. Perché la festa è sabato, e poco importa che il risultato e la sconfitta italiana siano scontati. Allo stadio si va per divertirsi e imparare, così come insegna la filosofia di uno sport che mette accanto alle velocissime ali, i piloni, giganti che spesso in partita non riescono neppure a toccare la palla. In campo, fianco a fianco, l’eleganza dei tre quarti e la tenacia del tallonatore, l’essenzialità dell’estremo e la visione di gioco del mediano d’apertura. Una specie d’orchestra in calzoncini che alterna i toni più gravi alla magìa del violino. Sugli spalti, sabato, sarà come sempre: fianco a fianco l’operaio e il colletto bianco, perché negli anni il rugby è diventato scuola di vita anche per i manager e in più di un’azienda si organizzano corsi e stage basati sulla palla ovale. Lo sport però è rimasto lo stesso. Fisico e per certi versi «sporco», con il fango che ti imbratta la faccia durante un placcaggio e la rabbia che monta quando la palla avversaria s’infila tra i pali della porta. Di questo parleranno gli All Blacks nell’incontro di oggi con gli studenti radunati all’Arena di Milano, questo metteranno in mostra durante l’allenamento di domani, rigorosamente all’aperto. Perché malgrado i successi e la notorietà mondiale i neozelandesi si sforzano di non essere troppo divi. Unica concessione alla vanità, o al mito se preferite, alloggiano in un hotel dalle pareti tutte nere. All Blacks, proprio come loro.