giovedì 15 ottobre 2020
Ha ottantatré anni, lo chiamano anche ”Colosseo moderno”. È sulla riva del Tevere fra Testaccio e Ostiense, esempio d’archeologia industriale
Il Gazometro di Roma esempio di archeologia industriale

Ha ottantatré anni, lo chiamano anche ”Colosseo moderno”. È sulla riva del Tevere fra Testaccio e Ostiense, esempio d’archeologia industriale che da alcuni mesi viene illuminato la sera col Tricolore e da tempo è diventato un altro simbolo capitolino: il gazometro più grande d’Italia, una struttura ideata per immagazzinare il gas di Roma, gestendone produzione e consumo. Veniva definito ‘a telescopio’, perché al suo interno aveva un enorme cilindro che si gonfiava e sgonfiava, alzandosi e abbassandosi, mostrando la quantità di gas contenuta(una miscela di metano, propano, butano, monossido di carbonio, acetilene).

I lavori iniziano nel 1935 e nel febbraio 1936, per le caratteristiche del terreno, bisogna aumentare del 70% il numero dei pali necessari alle fondamenta. Per costruirlo, l’Ansaldo di Genova (con la tedesca Klonne Dortmund) usa 3mila tonnellate di lamiere e profilati. I pali infissi sono 1.551 (mettendoli in fila arriverebbero a 36 chilometri). La sua altezza altezza è 89,1 metri, il diametro 63. E vi si si potevano stoccare fino a 200mila metri cubi di gas.

L’utilizzo del gas nella Capitale si deve a papa Pio IX, che nel 1845 fece sorgere la prima officina del gas a Roma.
La mole del gazometro, appena comincia a essere visibile, da mezza città, “suscita molto interesse – scrive la Romana gas (che ne era proprietaria) nel 1936 - e numerose sono le critiche e le discussioni che si sono accese”. Ci vogliono un paio d’anni di lavoro e, appunto, diverse polemiche per realizzarlo: viene inaugurato il 13 luglio 1937. Sarà dismesso fra il 1963 e il 1965, dopo la decisione nel 1960 di portare nella Capitale il metano naturale.

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