sabato 5 ottobre 2019
La storia della squadra femminile nata nei campi palestinesi di Beirut, con giocatrici anche libanesi e siriane. La rivoluzione di uno sport che tende al cielo e permette di oltrepassare le frontiere
Quando il basket permette di superare i muri

Se non sei nato nel Paese giusto la tua vita si ferma alla frontiera. Raggiungere la Spagna, l'Italia, l'Irlanda con in mano un passaporto palestinese, siriano o libanese è in molti casi complicato, se non addirittura impossibile, perché è obbligatorio ottenere prima un visto di ingresso per l’Europa.
Eppure loro, le ragazze della squadra di basket di Shatila, ce l'hanno fatta: scendono in campo con l’entusiasmo e i sorrisi di chi ha appena scoperto che il basket è uno sport meraviglioso che crea legami che vanno oltre le differenze e le nazionalità, perché ogni azione di gioco è l’esemplificazione della necessità di collaborare con gli altri per ottenere anche il più piccolo risultato. Indossano le divise di Basket Beats Borders, che in italiano significa il basket per superare i confini: linee invisibili per chi ha un passaporto potente, come quello italiano o tedesco, che diventano segni incancellabili, alti come muri, per chi possiede passaporti asiatici o africani.

Con tanto lavoro e fatica anche lo scorso luglio le ragazze accompagnate dal loro allenatore Majdi Majzoub sono riuscite a raggiungere per la terza volta l’Europa. Destinazione? I Paesi Baschi: «Una delle richieste di visto inizialmente era stata respinta, poi con l’aiuto degli avvocati anche Noha è riuscita a unirsi al resto della squadra per raggiungere l’Europa - ha spiegato David Ruggini, tra gli ideatori del progetto Basket Beats Borders - e a partecipare al torneo internazionale». Per lei la gioia è stata doppia, quando al suo arrivo a Bilbao ha potuto anche riabbracciare sua sorella che non vedeva da 3 anni, da quando assieme al marito era riuscita a migrare, superando tutte le insidie della rotta balcanica e ottenendo un permesso di soggiorno in Francia, perché apolide.
Stando ai dati del cosiddetto Passport Index - un indice di desiderabilità dei documenti di viaggio elaborato ogni anno dalla società di consulenze, Arton Capital - il passaporto italiano permette di entrare in 169 Paesi senza richiedere alcun visto, mentre con quello palestinese, siriano o libanese si scende rispettivamente a 46, 39, 50 Stati accessibili senza richiedere prima il documento per l'ingresso.

In questi dati è contenuta tutta la diseguaglianza di viaggio che subiscono anche le ragazze di Basket Beats Borders e meglio si può comprendere perché partecipare a un torneo internazionale si trasformi ogni volta in un'impresa che ha dello straordinario per chi vive una quotidianità da eterno sfollato, in un campo profughi come Shatila, che ha assunto nel tempo le sembianze di un quartiere-ghetto, e dove se non fosse per il check point dei militari libanesi a uno degli ingressi si faticherebbe persino a capire di esserci entrati.

A Shatila quello che cambia rispetto alle altre strade di Beirut è il colpo d’occhio verso il cielo che si restringe a causa dei fili dell’elettricità che formano degli accrocchi letali dalle forme più disparate (si parla di 4 morti folgorati in media all'anno, ndr).

È un dedalo di vicoli angusti dove dal 1949 a oggi le case si sono ammassate l'una sull'altra, ma moltiplicandosi solo in verticalità: va detto che si è passati da 3mila a oltre 30mila abitanti in un chilometro quadrato, una superficie non estendibile per la legislazione libanese. Gli adolescenti sono quelli che soffrono di più: nati e cresciuti in Libano non hanno prospettive né dentro né fuori dal campo. Il Libano non è tra i Paesi firmatari della Convenzione Onu sui rifugiati del 1951 e la legislazione libanese non consente ai palestinesi di avere un lavoro qualificato: sono esclusi da almeno 39 professioni, comprese quella del medico e dell’avvocato.

In queste condizioni pensare al diritto al gioco è decisamente utopistico: ecco perché un campo da basket, due ore di allenamento, una partita per le ragazze di Basket Beats Borders sono molto più che sport.
Tutto è nato dalla determinazione dell’allenatore Majdi, dalla voglia di un padre di assecondare il desiderio di una figlia, seguendone alla lettera un’intuizione e creando per lei e per altre sue coetanee uno spazio di libertà e di condivisione come solo una squadra può essere. «Noi crediamo che ogni ragazza al mondo abbia il diritto di giocare, di allenarsi», racconta Majdi. «Per le persone palestinesi, per le ragazze palestinesi non ci sono opportunità di fare sport, quindi abbiamo pensato di incoraggiarle a giocare».

Con il passare degli anni la famiglia Basket Beats Borders si è allargata: si sono unite ragazze libanesi e alcune siriane agli allenamenti che si tengono in un campo sportivo pubblico all'aperto a QasQas, appena fuori Shatila e a circa tre chilometri dal centro della capitale libanese. D’inverno quando fa molto freddo, le ragazze sono costrette a una pausa forzata perché non ci sono risorse economiche sufficienti ad affittare una palestra al chiuso.


E poi c'è il grande sogno di chi in questi anni ha già sognato e realizzato una rivoluzione con il basket, l’unico sport - parafrasando una leggenda Nba come Bill Russell - che tende al cielo e per questo è una rivoluzione per chi è abituato a guardare sempre a terra: la realizzazione di un piccolo campo da street basket sopra uno dei tetti di Shatila per avvicinare ancora più ragazze e chissà ragazzi, bambini e adulti a questo sport meraviglioso.

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