Donara Dallakian, 60 anni, vive sotto le bombe a Zaporizhzhia dove si era rifugiata in fuga dalla guerra in Georgia - Gambassi
«Non possiamo fuggire di nuovo». Parla al plurale Donara Dallakian: per lei e per suo marito Temuri Agagianov. Settant’anni lui, sessanta lei, vivono nel maggiore quartiere popolare di Zaporizhzhia, quello di Shevchenkivskyi. Una casa modesta, persa fra settemila villette malmesse che formano l’agglomerato a est della città dove si trovava anche l’aeroporto, ormai chiuso. Zaporizhzhia è stata la loro salvezza dalla guerra: la guerra civile in Georgia dove Donara è nata. «E ora ci ritroviamo sotto casa un’altra guerra - sospira la donna -. Ho detto al mio Temuri che sarebbe meglio andarsene. Ma lui mi ha sempre risposto di no: non vuole lasciare tutto un’altra volta. Non se la sente. Allora restiamo qui, consapevoli che un missile russo può arrivare da un momento all’altro e con l’angoscia di sapere che i figli dei vicini stanno combattendo per difenderci. Li consideriamo un po’ i nostri nipoti».
Si affida alla lingua russa, Donara, per dialogare. Come quasi tutti nella zona. «La mia famiglia è d’origine armena ma sono nata a Tblisi - racconta -. La giudico la mia terra, quella che mi ha cresciuta, nonostante conservassi salde le radici di famiglia». Poi sono iniziati gli scontri. Era il 1993. «Dopo due anni di conflitto in cui anche la Russia ha giocato un ruolo fondamentale, non ne potevamo più. E siamo venuti qui». Trent’anni di tranquillità. E le bombe sono tornate. «A Tblisi regnava il caos. Non avevamo energia elettrica e gas. Non potevamo comprare il cibo e riuscivamo a mettere qualcosa sotto i denti soltanto dopo aver fatto ore e ore di coda davanti ai banchi degli aiuti umanitari». Nel 2023 rivive un incubo analogo. «Dire che non ho paura a Zaporizhzhia sarebbe una falsità», ammette. Il fronte è a meno di cinquanta chilometri. «Però qui, nei momenti più difficili, ci hanno sempre garantito tre o quattro ore di corrente. E il clima è di gran lunga meno rigido, anche se quest’inverno abbiamo dormito con i vestiti addosso», dice quasi a voler trovare qualche appiglio di speranza nell’orrore che sperimenta ogni giorno.
Donara Dallakian, 60 anni, riceve gli aiuti umanitari da suor Lucia, religiosa greco-cattolica di San Basilio e dalla vicina Natalia - Gambassi
Con la mano indica in fondo alla strada. «Una notte siamo stati svegliati dalle esplosioni. Era arrivato un razzo. È morto un bambino». A lanciarlo le truppe di Mosca dai territori occupati della regione di Zaporizhzhia che per l’80% è controllata dai militari del Cremlino. «La Russia ha condizionato tutta la mia vita - riflette Donara -. Tuttavia, se guardo anche all’invasione cominciata più di un anno fa, non mi sento di condannare l’intero popolo russo. Non tutti vanno ritenuti colpevoli, non tutti sono d’accordo con le decisioni scellerate di Putin». Una pausa. «La mia Georgia è stata aggredita dai carri armati russi nel 2008 con la stessa falsa scusa usata per attaccare l’Ucraina: dicevano di appoggiare i separatisti e di volerla liberare. Oggi chi vive in Russia è sottoposto a una sorta di lavaggio del cervello per la propaganda martellante. Non si può pensare con la propria testa». E si viene costretti ad arruolarsi. «I miei parenti che erano rimasti in Georgia sono scappati subito dopo l’inizio della guerra. Si sono rifugiati in Armenia perché non vogliono imbracciare le armi contro l’Ucraina».
Davanti al cancello di casa attende il pacco viveri che le religiose greco-cattoliche di San Basilio le portano a cadenza regolare. «Sono malata», sussurra. Di cancro. Lo sguardo è stanco ma la dignità intatta. «Anche io lotto: non mi arrendo. Il male non può vincere», ripete avvolta nel lungo giubbotto nero che scende fin quasi agli stivaletti. Accanto ai piedi ha una borsa scura che affiderà a suor Lucia quando riceverà il necessario per mangiare e lavarsi. «Qui ci sono alcune coperte che ho cucito a mano. Non lo faccio solo per passare il tempo, ma per aiutare chi ha più bisogno». Anche lei è una povera di guerra, come lo sono gli anziani, le famiglie numerose, gli invalidi che la Chiesa soccorre fin da quando l’esercito russo è stato fermato intorno alla città. «Ma c’è chi sta peggio di noi. Penso a quanti abitano nei villaggi vicino ai campi di battaglia che fanno i conti con i bombardamenti senza sosta. A loro andranno le coperte. Io vengo aiutata. Ed è giusto che aiuti».
Oksana Crevenka, con la figlia disabile Sofia, che non è riuscita a caricare la carrozzina in treno - Gambassi
L’altro volto della resistenza si chiama condivisione. Come sa bene Oksana Crevenka. Abita nello stesso quartiere. E anche alla sua porta bussano le suore per consegnarle la “borsa solidale della spesa”. Nella cameretta la figlia Sofia sta seduta alla scrivania. È una disabile e non cammina. Al suo fianco la nonna. «Volevamo evacuare: la città è troppo pericolosa - dice la madre -. Ma alla stazione ferroviaria la sedia a rotelle non saliva sul treno. E ci hanno obbligate a rinunciare al viaggio». Non c’è recriminazione, ma solo dispiacere nelle parole di Oksana. «Il Signore ci assiste: ne siamo convinte. E ogni sera nelle nostre preghiere chiediamo che la guerra finisca al più presto».