Ansa
Nessuna tregua temporanea. Per bocca del dirigente storico, Taher al-Nunu, Hamas ha respinto l’ipotesi di un cessate il fuoco breve emersa nell’ultima settimana. E ribadito il proprio leitmotiv: solo la cessazione delle ostilità porterà al rilascio degli ostaggi. Undici mesi e due leader dopo – Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar –, la “linea rossa” del gruppo armato, fissata alla fine dello stop dello scorso novembre, non è mutata. «Prendere una posizione e mantenerla è un suo tratto distintivo. Hamas, però, combina tale rigidità ideologica con una caratteristica di segno opposto: un estremo pragmatismo. Si tratta di un movimento sfaccettato e dialettico», spiega Yoniv Ronen, storico e studioso dell’organizzazione nonché esperto del Forum for regional thinking. L’apparente paradosso è quello che gli ha consentito di sopravvivere per quasi quattro decenni e di insediare il primato di Fatah nella composita galassia del nazionalismo palestinese. «Hamas nasce come costola dei Fratelli musulmani, guidata dallo sceicco Ahmed Yassin e dal suo Centro islamico, riconosciuto dalle autorità israeliane in chiave anti-Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp). È solo con la Prima intifada che aderisce alla lotta armata, diventando l’Islamic resistence movement cioè Hamas, movimento di liberazione con base religiosa». L’attività terroristica, in quest’ottica, rappresenta solo una parte dell’organizzazione. Il suo punto di forza è il radicamento sociale: il bacino di sostegno e reclutamento sono i campi profughi della Striscia e della Cisgiordania dove più forte è la rabbia e la frustrazione contro l’occupazione israeliana. «In arabo si dice: “sumud” e indica l’essere parte del territorio e del popolo. Hamas non può essere considerato un corpo estraneo rispetto alla società palestinese, una creatura artificiale creata da Teheran, anche se riceve sostegno economico e militare da quest’ultima», afferma Ronen.Ciò, ovviamente, non implica l’equazione tra Hamas e palestinesi. L’origine e la durata del gruppo armato sono legate a cause endogene. «Per questo, è sopravvissuto all’uccisione dei propri vertici». È accaduto con Yassin, poi con Haniyeh. Avverrà anche dopo Sinwar? «Più che dalla sua morte, il futuro di Hamas dipende da Israele. È quest’ultimo l’attore politico determinante. Se lo Stato ebraico procederà con la strategia della guerra a oltranza, il gruppo armato non scomparirà. Con il protrarsi del caos a Gaza, è probabile che si frammenti in una serie di gruppi con un’affiliazione fluida ad Hamas. Formazioni più agguerrite e estremiste, con tratti islamisti maggiormente marcati. L’infrastruttura civile, nel frattempo, continuerà ad operare e il bureau di Doha a fare azione di advocacy. Si tratta, purtroppo dello scenario più probabile poiché una soluzione politica della questione palestinese non è nell’agenda israeliana. Nessuno ne parla. Né il governo né l’opposizione. Il primo è determinato a proseguire i combattimenti, la seconda impiega toni più soft ma non si smuove dall’idea di “gestire il conflitto”, con un ritorno allo status quo. Manca l’idea di avviare un processo di riconciliazione che cominci con un cessate il fuoco e lo scambio tra ostaggi e detenuti e sfoci nel riconoscimento del diritto all’autodeterminazione per i palestinesi».Secondo lo storico, questa è l’unica strada per mettere fine realmente alla minaccia di Hamas come attore armato violento. «In uno scenario di riconciliazione, Hamas si evolverebbe in un partito politico, come è accaduto all’Olp. Già nel 2009, il centro di ricerca Rand ha studiato la traiettoria di ottocento organizzazioni terroristiche novecentesche. Quasi la metà – il 42 per cento – ha rinunciato alle armi diventando formazioni politiche legali, mentre il 35 per cento è stata eliminata dalla pressione militare o poliziesca. Israele ha scelto per decenni quest’ultima strategia e ha fallito. È tempo di cambiare. Mai come ora, oltretutto, il tempo è propizio. La scomparsa delle menti del 7 ottobre, Sinwar e Mohammed Deif, aumentano le possibilità di una via d’uscita negoziale. Israele, però, sembra decisa a perdere l’occasione». Sia la maggioranza di ultradestra sia le forze di opposizione appaiono convinte di «non avere un partner per la pace», secondo l’espressione dell’ex premier laburista Ehud Barak. «Gli accordi di Oslo avevano generato un’ondata di forte speranza, poi delusa. Molti, inoltre, sono rimasti scottati dalla Seconda intifada – conclude Yaniv Ronen –. Da qui la convinzione diffusa che i palestinesi non volessero un’intesa. È, però, falso. C’è sempre un partner. Se non altro per il fatto che, comunque, in questa terra continueranno a vivere sette milioni di israeliani e sette milioni di palestinesi. Possono farlo in pace o in guerra. E la seconda opzione porta solo alla distruzione reciproca".