Il presidente cinese Xi Jinping (Ansa)
Ha prima accumulato una quantità impressionante di cariche – da segretario del Partito Comunista a capo dello Stato, da comandante in capo dell’esercito a “core” (“centro, nucleo, sole”) del Partito, in quella che a molti è parsa come una vera e propria “bulimia” di potere. Quindi ha “marcato” – iscrivendovi la sua dottrina – lo Statuto del Partito comunista cinese (Pcc), come nessun altro leader cinese aveva fatto: unica eccezione, guarda caso, Mao.
Quindi la “picconatura” finale (e fatale) del compagno Xi Jinping: l’eliminazione del limite dei due mandati al potere presidenziale, ratificata domenica dall'Assemblea nazionale del Popolo, il Parlamento cinese. Un voto plebisicitario, quello dell'assemblea con 2.958 favorevoli, due contrari e tre astenuti. Presentato, dalla stampa cinese, come una misura necessaria "alla pace duratura e alla stabilità" del Paese. Non solo: in agenda c'è anche la "costituzionalizzazione" della National supervision commission, l'organismo che dovrà fortificare la politica anti corruzione voluta da Xi, la più potente arma per disciplinare la vita del Partito.
Via ogni limite e ogni argine, dunque. Xi Jinping potrà “regnare” a tempo indeterminato, ben oltre il termine dei dieci anni, imprimendo al suo potere una torsione imperiale. È quello che l’analista Carl Minzner, professore alla Fordham University di New York, definisce l’ultimo passo «della continua rottura delle norme politiche che hanno dominato l’era del riformismo cinese». Durissima la reazione del dissidente Hu Jia: "Quarantadue anni dopo, nell'era di internet e della mondializzazione, un nuovo tiranno in stile Mao si eleva sulla Cina".
È stato il Comitato permanente del Politburo del Partito comunista a proporre la rimozione del limite dei due mandati, con un emendamento alla Costituzione, diffondendo in un documento di 4.480 caratteri cinesi. «Il cambiamento non significa che il presidente cinese avrà un mandato a vita», ha sostenuto in un editoriale il Global Times, giornale pubblicato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa ufficiale del Partito. E il portavoce del ministero degli Esteri, Lu Kang ha auspicato che «tutti possano riconoscere la voce di tutto il popolo cinese».
E ora? Quale destino attende l’uomo che ha riorganizzato la macchina dell’esercito cinese, lanciato l’ambizioso piano infrastrutturale della Belt and Road, inasprito come nessuno prima la censura su Internet, invocato una nuova purezza ideologica e organizzato la più violenta (e fratricida) campagna anti corruzione, decimando pezzi grossi e non del Partito? Non ha dubbi il sinologo Willy Lam: «Xi è diventato imperatore. A vita». Durissimo l’attivista pro-democratico Joshua Wong, uno dei volti più noti delle proteste del 2014 di Occupy Central contro il piano di riforma del meccanismo di elezione della massima carica di Hong Kong proposto da Pechino: «La Cina avrà ancora un dittatore come capo di Stato, Xi Jinping». Per il New York Times siamo dinanzi all’ennesima conferma della «regressione autoritaria», basata «sull’alta personalizzazione dell’esercizio del potere» che, come un contagio, sta rimbalzando in tutte le latitudini del globo.