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L'arrivo a Caracas, via Honduras, dei 199 migranti venezuelani - Ansa
I 199 venezuelani sono tornati a Caracas questa mattina: sedici giorni dopo lo stop decretato da Nicolás Maduro e 48 ore dopo il nuovo accordo con Washington. Nel frattempo, il 15 marzo, 238 connazionali sono stati arrestati e spediti in carcere a El Salvador con l'accusa di essere parte della gang Tren de Aragua. Proprio questa sarebbe stata la molla che avrebbe spinto Maduro a fare marcia indietro. «L'abbiamo deciso per proteggere i diritti umani dei nostri compatrioti», si legge nella dichiarazione firmata dal capo del Parlamento, Jorge Rodríguez. Le condizioni in cui è avvenuta la deportazione e della detenzione sono state duramente criticate dentro e fuori gli Usa tanto che un gruppo di avvocati salvadoregni ha presentato una richiesta di habeas corpus per una trentina di migranti. «Ora ci aspettiamo un flusso costante di rientri», ha sottolineato l'ufficio per gli Affari dell'emisfero occidentale. La questione, in realtà, è molto più complessa. Nel primo mese dal ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, sono stati rimpatriati oltre 900 venezuelani, in quattro successivi voli. Troppo pochi secondo gli standard esigenti del tycoon che, a fine febbraio, come strumento di pressione, ha revocato la deroga concessa dal predecessore al colosso petrolifero Chevran per operare a Caracas, nonostante le sanzioni.
Un duro colpo alla - timida - ripresa dell'economia venezuelana. Maduro, furente, ha bloccato i ritorni. Trump, però, non si è arreso. E ha aggirato l'ostacolo grazie alla mano tesa del salvadoregno Nayib Bukele, il quale non lesina complimenti all'omologo statunitense. Le "affinità elettive" e l'ansia di accattivarsi la simpatia del repubblicano - che domani lo premierà con la missione della ministra della sicurezza Kristi Koem per «rafforzare le relazioni» - spiegano, però, solo in parte l'intervento del leader. Quest'ultimo si è aggiudicato, in primo luogo, sei milioni di dollari l'anno da Washington. Un gruzzolo utile ma non decisivo per mantenere l'espansione del sistema carcerario in cui è stato rinchiuso l'1 per cento della popolazione: i costi ammontano a 200 milioni annuali. Il "guadagno" principale, però, riguarda la politica interna. Tra quanti sono stati spediti nella prigione anti-terrorismo di El Salvador (Cecot) ci sono anche ventitrè salvadoregni, tra cui il boss César Humberto López Larios alias Greñas de Stoners, uno dei vertici della Mara Salvatrucha (Ms13), incaricato di negoziare la riduzione degli omicidi in cambio di benefici con i differenti governi nazionali, incluso l'attuale.
Arrestato in Messico l'anno scorso e estradato negli Usa dove lo attendeva l'accusa di narco-terrorismo, avrebbe dovuto testimoniare di fronte a un giudice di New York riguardo alle relazioni oscure tra esecutivo e gang. Quattro giorni prima del rimpatrio, la Procura generale aveva deciso di ritirare i capi di imputazione nei suoi confronti. Segnale eloquente del raggiungimento di un accordo di collaborazione. Le trattative tra l'amministrazione Bukele e le Maras sono state rivelate dalle inchieste del prestigioso giornale centramericano El Faro. Affermazioni che i pm Usa considerano attendibili. Proprio questo preoccupa Bukele che, già il 3 febbraio, a Marco Rubio, in viaggio nel Paese, aveva chiesto come unica condizione per concedere El Salvador per ospitare migranti di altre nazionalità espulsi dagli Usa, il rimpatrio dei leader delle gang.
Il ritorno a Caracas di Greñas de Stoners sembra già avere raggiunto l'obiettivo di silenziare testimoni scomodi. Altri due boss della M13, Marlon Antonio Menjívar alias Rojo de Park View e Jorge Alexander de la Cruz alias Cruger, sentiti il 17 marzo dalla corte del distretto est di New York, si sono limitati a dichiararsi colpevoli di tutte le accuse. Nessun accenno a presunti negoziati con il governo. Per quanto duro, il carcere Usa è sempre meglio del Cecot.