L'opera di Cattelan all'hangar Bicocca di Milano - L.C.
«Sì, ho sentito parlare spesso dell’11 settembre. Mio papà, quando vede un aereo attraversare il cielo di Milano a bassa quota, esclama: “Speriamo non finisca come per le Torri gemelle!”. Da allora gli è rimasta la paura di volare». Alessandro è nato esattamente sette anni e sei mesi dopo quel giorno fatale del 2001. Non ha vissuto, dunque, in diretta, i 102 minuti che travolsero d’orrore e incredulità l’America e il mondo. In qualche modo, però, l’11 settembre si è insinuato anche nel suo universo di adolescente italiano. «Uno pensa: “Gli Stati Uniti sono lontani”. Invece no. Da allora i terroristi hanno continuato a colpire. Mi ricordo bene l’attacco al Bataclan di Parigi: i terroristi uccidevano le persone riunite per un concerto. Mi avevo fatto molta paura perché è accaduto a due passi dall’Italia. Di fronte a quest’opera provo la stessa inquietudine», afferma Pietro – anche lui 13enne, appena entrato in terza media – mentre contempla la mastodontica istallazione, volutamente tetra, di Maurizio Cattelan. Accompagnare un gruppo di giovanissimi alla sua mostra – “Breath Ghosts Blind” –– esposta nello spazio di Pirelli Hangar Bicocca del capoluogo lombardo è un’esperienza insolita e affascinante.
L'opera di Cattelan all'hangar Bicocca di Milano - L.C.
Lo sguardo dei ragazzi – tutti nati dopo o a ridosso della fatidica data – svela quanto l’11 settembre sia impresso nella memoria collettiva. E permei, seppur inconsciamente, il loro e il nostro contemporaneo. «L’epoca attuale è nata sulle macerie delle Torri gemelle. Parole come “jihadismo”, “al-Qaeda”, “estremismo islamista”, “kamikaze”, sono entrati nel vocabolario quotidiano. Abbiamo scoperto che, dietro l’angolo, c’erano, e ci sono, Paesi devastati dalla violenza. E che quella violenza poteva farci male”, afferma Erika, 20 anni appena compiuti, studentessa di Moda.
Giorgia, coetanea, in piedi accanto a lei, annuisce: «No, non è passato, è presente». Forse per questo nessuno degli adolescenti e post resta indifferente di fronte alla massa rettangolare corvina che si staglia per 17 metri d’altezza, con un aeroplano incastrato all’interno, a ridosso della sommità. Le sue ali si aprono come una croce pietosa sulla sala vuota. Appena entrati, dopo aver percorso un lungo antro buio, con le pareti cariche dei corpi imbalsamati dei piccioni, i ragazzi distolgono la faccia dall’immancabile cellulare. E, per qualche minuto, le dita smettono di digitare sulla tastiera portatile. Si avvicinano all’opera quasi intimoriti. Ci girano intorno, una, due, più volte. Gli occhi percorrono la sua mole monumentale in lungo e in largo, da ogni possibile angolature. Sono coinvolti, contro ogni previsione. Non sembrano gli stessi adolescenti convinti dopo un pomeriggio di chiamate, richieste, preghiere. Nonostante la distanza temporale e la mancanza di conoscenze artistiche, quell’istallazione parla, inaspettatamente, il loro stesso linguaggio.
I ragazzi osservano l'opera di Cattelan all'hangar Bicocca di Milano - L.C.
«Come devono essersi sentiti impotenti quelli fuori. Non potevano fare niente per aiutare chi era intrappolato nel World Trade Center», aggiunge ancora Alessandro. «Solo ora ho capito un po’ di più quello che mi descrivevano mia madre e mio padre – spiega Viola, liceale di 15 anni –. Le immagini della tv ti raccontano quel che è accaduto. Ma questa istallazione ti fa provare la paura e l’angoscia di quel giorno». «È il nero, fa impressione. Mi trasmette ansia. Sembra che questo colosso ti venga addosso. Mi dà l’idea del fumo che ha avvolto New York», dice Beatrice, 14 anni – «Ne compio 15 fra due mesi», sottolinea –, in procinto di cominciare la seconda superiore. «Mi fa accapponare la pelle», le fa eco Erika. Sandro, taxista di 48 anni, che si è aggiunto all’ultimo momento alla comitiva, dichiara, con tono definitivo: «Porterò i miei figli. Magari mi aiuterà a spiegare loro quel giorno. Non ci sono mai riuscito davvero. Eppure mi ha lasciato un ricordo forte. Lavoravo in una società informatica e si bloccò Internet. Allora significava fermare tutto il lavoro: la Rete era ancora una novità. Non c’erano poi i video su YouTube o i messaggi sui social, dovevi aspettare le notizie della tv. Ai miei ragazzi sembra impossibile. È quel senso di paralisi che non riesco a trasmettere». Immobilità, fragilità, insicurezza, fragilità. I medesimi sentimenti provocati dalla pandemia, in cui siamo immersi da quasi due anni. E che sui giovani, bloccati a casa per lunghi periodi, isolati dagli amici, costretti a rinunciare alle più innocenti forme di socialità, ha un impatto potente e, probabilmente indelebile.
«Certo che ricorderò sempre questo periodo. Il virus mi fa paura, tanta. Anche se noi ragazzi ci ammaliamo meno rischiamo di perdere i nostri cari. Eppure il terrorismo mi spaventa ancora di più», dichiara Penelope, 15 anni, seconda liceo classico appena cominciata. L’affermazione, a primo acchitto, può suscitare perplessità dato che il Covid marchia a fuoco la quotidianità. «Il fatto sappiamo che ora il Covid può essere sconfitto dai vaccini. Difficilmente, invece, il terrorismo, la violenza, i conflitti finiranno, almeno a breve», esplicita l’adolescente mentre gli altri giovani annuiscono. «A Kabul sono tornati i taleban: vent’anni e siamo punto e a capo», sospirano Erika e Giorgia. «Quando ho visto l’istallazione mi sono venute in mente le immagini delle persone che cercavano di fuggire dall’Afghanistan aggrappandosi alle code degli aerei – conclude Beatrice –. Non era molto diverso dalle Torri gemelli. Quanti altri 11 settembre dovranno ancora accadere?»