Il bazar di Eminonu a Istanbul: ieri sera è scattato il lockdown - Ansa
Doveva essere la primavera del ritorno alla normalità. La Turchia invece è piombata in un incubo da pandemia come non aveva mai visto prima. Le strade di Istanbul, colorate dalla presenza di oltre 5 milioni di bulbi di tulipani, il fiore nazionale, che tutti gli anni in questo periodo abbellisce le vie della megalopoli sul Bosforo, si preparano a tornare totalmente deserte nei prossimi giorni, dopo esserle state lo scorso fine settimana e parzialmente nei giorni lavorativi. Aprile si è rivelato un mese nero per i contagi, con una media di 43mila nuovi casi al giorno e una punta di 60mila. Numeri che fanno tremare le autorità sanitarie e governative e che fanno sorgere dubbi sia sulle informazioni diffuse per oltre un anno, sia sull’efficacia della campagna vaccinale. In questo momento la Mezzaluna conta ufficialmente 4,7 milioni di casi e 40mila vittime.
Il presidente, Recep Tayyip Erdogan, solitamente restio a provvedimenti restrittivi, non ha avuto altra scelta se non quella di correre ai ripari e di indire un nuovo lockdown duro di quasi tre settimane, iniziato ieri sera, e che proseguirà fino al 17 maggio. Farà così saltare agli abitanti di Istanbul il tempo dei tulipani e, soprattutto, le feste previste per la fine del mese sacro del Ramadan. Proprio le cene conviviali di rottura del digiuno, infatti, potrebbero essere fra le cause del picco di contagi. I negozi rimarranno chiusi, escluse le attività essenziali e la didattica di ogni grado sarà esclusivamente a distanza. Vietati anche gli spostamenti nel Paese che, per la quasi totalità del suo territorio è in zona rossa, se si eccettuano poche regioni del sud-est a maggioranza curda che si trovano in zona arancione, quindi con esercizi commerciali parzialmente aperti e una libertà di movimento meno ridotta.
Una situazione preoccupante, che non sembra essere destinata a migliorare nel breve termine e sulla quale non ha impattato positivamente nemmeno una campagna vaccinale di massa, iniziata e che ha portato, fino a questo momento, all’inoculazione di oltre 20 milioni di dosi. La Turchia, sinora, ha utilizzato solo il vaccino cinese Sinovac, che la stessa Pechino ha considerato non pienamente efficace. Nei prossimi mesi dovrebbero partire tanto la produzione del russo Sputnik V quanto quella del vaccino nazionale che, stando ai sogni di gloria del presidente Erdogan, dovrebbe essere donato ai Paesi più bisognosi, che non hanno potuto avviare una campagna vaccinale di massa. Un modo per ampliare la propria influenza in territori che potrebbero rivelarsi particolarmente strategici, facendolo passare per impegno umanitario. Resta il fatto, però, che fino a questo momento la Turchia dall’emergenza Covid non è uscita e che l’immunizzazione della propria popolazione è così lontana, che ora Ankara sta trattando anche per acquistare dosi del vaccino Moderna.
Le strutture sanitarie sono al collasso. A Istanbul le terapie intensive hanno raggiunto il 70% della capienza e c’è il serio timore che, se si continua così, non ci sarà la possibilità di curare tutti. Il dito è puntato contro il governo, reo di avere adottato misure troppo blande nei mesi scorsi e soprattutto sospettato di aver mentito sulla reale situazione. Da marzo a novembre 2020 la Turchia ha dichiarato ufficialmente fra i 2.000-3.000 nuovi casi al giorno, in contro tendenza con gli andamenti di molti altri Paesi. Secondo il quotidiano Birgun, in marzo il numero reale delle vittime era già di circa 90mila e peggiorerà progressivamente nei prossimi mesi.
Il presidente Erdogan commenta il meno possibile, ma per lui questo non è un momento facile. Oltre alla gestione fallimentare della pandemia, deve anche fare i conti con una situazione economica critica a causa della svalutazione della lira turca contro il dollaro e l’euro. L’aumento dei contagi e il suo mancato contenimento potrebbero avere effetti deleteri anche sulla stagione estiva ormai alle porte. Le misure restrittive di questi giorni hanno quindi una duplice finalità: combattere la pandemia ma anche evitare manifestazioni di protesta, in primo luogo quella del Primo maggio, che da sempre si trasforma in una protesta di piazza contro il presidente.