Donald Trump lascia oggi la Casa Bianca dopo quattro anni da presidente Usa - Reuters
A un certo punto, era il giugno 2017, il New York Times arrivò a pubblicare una lista con tutte le bugie di Donald Trump a partire dal suo insediamento: era «the liar in chief», il bugiardo al comando, come lo bollò il quotidiano liberal, emblema di quei media contro cui lo stesso Trump aveva impostato una vittoriosa campagna elettorale. Oggi che Trump si congeda ufficialmente da Washington, con una cerimonia di addio alla base di Andrews nel Maryland, le centinaia di piccole grandi menzogne citate in quella pagina storica sembrano impallidire davanti a quanto gli americani hanno visto dopo.
La tragica gestione della pandemia, che ha fatto degli Stati Uniti il Paese più colpito al mondo dal nuovo coronavirus, e il drammatico assalto del 6 gennaio al Congresso, frutto di un dibattito politico reso sempre più tossico da un Trump che non ha mai accettato la sconfitta elettorale, resteranno un marchio sull’eredità morale del presidente numero 45. Perché se è vero che in questi quattro anni i suoi tagli alle tasse hanno contribuito alla crescita dell’economia Usa – aiutando però soprattutto ricchi e grandi aziende e al prezzo di un aumento del debito pubblico – e se gli Accordi di Abramo potrebbero avere riflessi importanti nella stabilizzazione del Medio Oriente – ma i palestinesi hanno parlato di pugnalata alle spalle –, quando gli storici si occuperanno della «legacy», l’eredità trumpiana, difficilmente il repubblicano potrà sfuggire a un giudizio severo.
Arrivato alla Casa Bianca dopo essersi prima impadronito del partito repubblicano a colpi di comizi incendiari e poi dopo aver battuto Hillary Clinton andando a prendersi i voti degli operai bianchi nella «Rust Belt» da sempre democratica, Trump ha polarizzato l’America come nessun altro presidente prima di lui. Adorato da chi crede alle sue promesse, nonostante non ne abbia mantenuto nemmeno la metà, disprezzato da chi non ne sopporta la scarsa competenza unita a una certa dose di arroganza, Trump non ha mai mancato di spaccare una società americana che con lui si è scoperta sempre più esposta a raffiche di tweet corrosivi e ambivalenti. Se il repubblicano è stato in grado di mantenere la promessa di ritirare gli Usa da accordi commerciali come la Trans-Pacific Partnership e cambiare l’intesa Nafta per limitare la concorrenza straniera e ridurre la delocalizzazione delle fabbriche Usa, è rimasta incompiuta la promessa di un muro al confine con il Messico per bloccare l’immigrazione irregolare. Le barriere installate non coprono nemmeno la metà dei 1.600 chilometri di muro promessi da Trump e certamente non sono stati pagate dal Messico, come il presidente uscente andava ripetendo.
Nonostante per due anni abbia avuto dalla sua sia la Camera che il Senato, Trump non è riuscito nemmeno a cancellare e sostituire la riforma sanitaria di Barack Obama, né a concludere l’impegno americano in Afghanistan e in Iraq. Ancora: non ha mantenuto la promessa di cancellare lo ius soli dalla Costituzione, né ha investito, come pure diceva di voler fare, miliardi di dollari nelle infrastrutture. Ogni mossa è sembrata guidata dalla volontà di rompere nettamente con il passato, e questo al costo di fagocitare uno dopo l’altro i collaboratori che evitavano di fare da «yesman».
Trump ha ritirato gli Usa dagli accordi sul clima di Parigi e dall’intesa sul nucleare iraniano, ha avviato una guerra commerciale con la Cina, ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, forse il più grande regalo politico che un presidente Usa potesse fare a Israele. Sulla pena di morte ha tirato dritto davanti alle critiche, ripristinando le esecuzioni federali dopo 17 anni, sostenuto da una Corte Suprema da lui stesso imbottita di giudici conservatori (tre nomine in quattro anni, un record che sposterà a destra la Corte per due decenni). Per contrasto, un anno fa si è distinto come il primo presidente Usa a partecipare all'annuale marcia per la vita a Washington, denunciando le posizioni da lui definite "radicali" dei democratici sull'aborto. Dopo essere stato "pro-choice" in un lontano passato, Trump si è presentato come il difensore più forte che i bambini non nati avessero avuto alla Casa Bianca. Tra i suoi primi provvedimenti c'era stato lo stop dei finanziamenti Usa alle Ong che praticano o promuovono l'aborto nel mondo.
Controverso e spesso indecifrabile, decisionista e scaltro, bollato da qualche rivale come lo zio ubriaco che nessuno vorrebbe avere al matrimonio perché prima o poi si alza e mette tutti in imbarazzo con i suoi discorsi. L’America che oggi volta pagina può guardare serenamente avanti.