Il presidente eletto Trump - Ansa
Ora è ufficiale: dopo il Senato, anche la Camera. Si completa così la “presa” del Congresso del presidente eletto Donald Trump. Le urne hanno certificato che il partito repubblicano, vincitore della corsa alla Casa Bianca, ha il pieno controllo anche del parlamento. Con il quarto tassello già in tasca da tempo, la Corte Suprema, è suo il “Grande Slam” degli Stati Uniti.
La soglia che fa scattare la maggioranza ai Rappresentanti (218 deputati su 435) è stata certificata nelle scorse ore con la vittoria del Grand Old Party nei seggi chiave di Arizona e California. Al momento, il vantaggio dei repubblicani sui democratici è di dieci deputati (218 a destra, 208 a sinistra) ma sono nove i seggi che devono ancora essere assegnati. Ciò significa che la portata del distacco, già chiara al Senato (53 a 47), è ancora tutta da definire. Anche se per due anni, fino al voto di midterm, il vantaggio resterà incolmabile. È difficile fare previsioni sull’esito definitivo dello scrutinio in corso, Stato per Stato, dal 5 novembre. Molti candidati democratici sono stati travolti e fatti fuori dall’ondata rossa che ha attraversato il Paese, da est a ovest, nell’elezione del presidente. La sconfitta più pesante incassata dai dem è avvenuta in Pennsylvania dove i repubblicani hanno conquistato lo scranno di Scranton occupato da Matt Cartwright dal 2013.
Tuttavia, in alcune circoscrizioni, per esempio nello Stato di New York, sono i dem riusciti a smarcarsi dalla leadership di Kamala Harris e a far saltare i piani di vittoria facile dei repubblicani. Tutto insomma può succedere. Per non rischiare, intanto, il partito ha chiesto a Trump di evitare di affidare incarichi di governo ai deputati già eletti perché questi possono essere sostituiti solo indicendo “elezioni speciali” nel seggio vacante. Il tycoon ne ha già fatti tre: la parlamentare newyorkese Elise Stefanik è diventata ambasciatrice Usa all’Onu mentre i deputati della Florida Mike Waltz e Matt Gaetz (che ieri si è formalmente dimesso dalla Camera, dove quindi non giurerà) sono stati nominati, rispettivamente, consigliere per la Sicurezza nazionale e ministro della Giustizia. Si tratta di interventi mirati, che riaprono i giochi in tre seggi “sicuri”, ma, si sa, l’esito delle elezioni (seppure ravvicinate) è sempre incerto.
I numeri, è indubbio, fanno la politica. Ne è consapevole lo stesso Trump che, nella legislatura che sta per concludersi, è stato leader di una maggioranza esile e bellicosa. Sarà così anche nella prossima? Può essere. Tutto dipende dalla resistenza dei moderati (o presunti tali) al trumpismo spinto. Molti, tra gli addetti ai lavori, segnalano che, per il momento, il fronte della destra americana, ubriaca dalla vittoria di Trump, è piuttosto compatto. L’agenda del presidente eletto, “re Sole”, potrebbe essere adottata rapidamente varando, una dietro l’altra, le leggi promesse in campagna elettorale partendo da tagli fiscali e sicurezza delle frontiere. Mike Johnson, che grazie a Trump ha ottenuto l’appoggio del partito a un nuovo mandato come speaker della Camera, ha paragonato il lavoro che attende i deputati in aula all’accensione di una “fiamma ossidrica” su tutto quello che è stato fatto dai democratici negli ultimi anni. Toni non molto diversi da quelli in circolazione anche alla Camera alta. «Siamo una squadra sola, i repubblicani sono uniti», ha dichiarato il nuovo capogruppo al Senato, John Thune, tra i più solerti critici del tycoon ai tempi dell’assalto al Campidoglio.
Lo si capirà subito quanto è determinata la resistenza interna. Tra i primi nodi al pettine c’è la controversa nomina a procuratore generale di Gaetz che in passato è stato oggetto di un’indagine del Comitato Etico della Camera per presunte molestie sessuali e uso di droghe illecite. La sua promozione non piace ma Trump ha già messo le mani avanti ventilando l’ipotesi di bypassare il Senato per validare le nomine, come questa, disposte a Parlamento sospeso.