Un'attivista del Tibetan Youth Congress esibisce una bandiera tibetana dopo essere stata arrestata davanti all'ambasciata cinese a Nuova Delhi, in India - ANSA
Sradicati dalle loro terre e dai villaggi, deportati anche a mille chilometri di distanza dai loro luoghi d’origine, costretti a trasferirsi in città. La Cina – è la denuncia contenuta in un rapporto di Human Rights Watch - sta accelerando l’urbanizzazione forzata degli abitanti dei villaggi e dei pastori tibetani, distruggendo così, afferma la Ong, sistemi di vita ed equilibri antichissimi. L’obiettivo finale della politica di “ricollocazione” cinese? L’assimilazione forzata dei tibetani.
I casi sarebbero migliaia. Il trasferimento, ammantato da motivazioni umanitarie – "lotta alla povertà e protezione dell’ambiente" - è “volontario” per le autorità locali, “obbligatorio” secondo le testimonianze raccolte dalla Ong. Le ricostruzioni contraddicono la narrazione ufficiale di Pechino, secondo la quale “tutti i tibetani che hanno deciso di trasferirsi, con le loro case distrutte al momento della partenza, lo hanno fatto volontariamente”. Secondo Human Rights Watch “questi trasferimenti di intere comunità rurali erodono o causano gravi danni alla cultura e agli stili di vita tibetani, anche perché la maggior parte dei programmi di ricollocazione in Tibet spostano gli ex agricoltori e pastori in aree dove non possono esercitare i loro mezzi di sostentamento e non hanno altra scelta che cercare lavoro come lavoratori salariati nelle industrie non agricole”.
Cerimonia dell'alzabandiera nella piazza del Palazzo del Potala a Lhasa - ANSA
I numeri sono impressionati: "più di 3 milioni degli oltre 4,5 milioni di tibetani che vivono nelle zone rurali sono stati costretti a costruire case e ad abbandonare il loro tradizionale stile di vita nomade basato sull'allevamento di yak e sull'agricoltura", denuncia il rapporto.
Le statistiche ufficiali suggeriscono, fa sapere ancora la Ong, che entro la fine del 2025, "più di 930.000 tibetani rurali saranno trasferiti nei centri urbani dove saranno privati delle loro tradizionali fonti di reddito e avranno difficoltà a trovare lavoro".
Ma non solo. Oltre ai trasferimenti di interi villaggi, in Tibet esiste anche una seconda forma di trasferimento: quella dei singoli nuclei familiari. Questa forma di ricollocazione prevede che i funzionari selezionino le famiglie più povere da trasferire in aree presentate come più adatte alla generazione di reddito. Anche se i nuclei familiari scelti possono rifiutarsi di partecipare al programma, Human Rights Watch ha riscontrato in molti casi che "i funzionari forniscono alle famiglie informazioni fuorvianti sui vantaggi economici del trasferimento per ottenere il loro consenso". Da un’analisi del 2014 di un precedente programma di ricollocazione nel Tibet orientale è emerso, denunciano ancora gli attivisti, che anche dopo 10 anni, il 69% dei ricollocati si trovava ancora ad affrontare difficoltà finanziarie e il 49% desiderava ritornare nelle proprie case.