lunedì 15 luglio 2024
Con il volto sanguinante e le frasi pronunciate dal palco, Donald è entrato nel girone degli eroi mediatici che non hanno bisogno di niente. Neanche dei voti
Donald Trump subito dopo l'attentato in Pennsylvania

Donald Trump subito dopo l'attentato in Pennsylvania - Ansa

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Due frasi Donald Trump ha inciso per sempre nella memoria collettiva, in quell’American Graffiti che un domani ancora lontano celebrerà – con l’incredulo stupore dei sopravvissuti e il brivido sottile del raccapriccio – le gesta di un personaggio al di fuori di ogni immaginazione: «Let me get my shoes» (lasciatemi prendere le scarpe) mentre gli uomini del servizio segreto lo trascinano fuori tiro e «Fight! Fight! Fight!», mentre leva il pugno sullo sfondo del cielo blu e della bandiera a stelle e strisce – un’icona pari a quella di Iwo Jima – e incita i suoi sostenitori a combattere fino alla fine mentre un fresco rivolo di sangue gli solca il viso.

Approdato definitivamente nel girone degli eroi mediatici, The Donald non ha più bisogno di niente, nemmeno dei voti che i settantacinque milioni di americani gli avevano garantito e continueranno a garantirgli, attingendo sia a quel pensiero magico che si credeva patrimonio del mondo arcaico delle società tribali sia all’estro perverso del destino (come si fa a non domandarsi con un certo turbamento quale sortilegio abbia consentito al tycoon di sopravvivere per pochi millimetri a un proiettile mortale?)

Non occorre infatti scomodare Lévi-Strauss o Jung per decifrare cosa si nasconde dietro alla sanguinosa epifania di Butler. Un’ordalia che lo consegna per sempre alla figura di magico pifferaio, capace di incantare mezza America e farle dimenticare tutto, i maneggi finanziari, le carte segrete di Mar-a-Lago (imputazione archiviata), la condanna definitiva che ne fa un pregiudicato per aver pagato con fondi impropri il silenzio di una ragazza di piacere, le inchieste sulla sommossa di Capitol Hill e il suo silenzio-assenso dietro alle lunghe corna del caricaturale sciamano che aveva invaso l’aula del Senato, unito alla raccapricciante teoria di un sinedrio internazionale di perversi demiurghi intenzionati a distruggere la supremazia dell’etnia bianca.

Ecco Donald Trump. “The Donald”, come lo chiamava la sua prima moglie. Il “tycoon”, il ragazzo prodigio figlio di un palazzinaro milionario, con un patrimonio di 5,3 miliardi di dollari, sei volte fallito, tante volte sgusciato fra le maglie della giustizia, della morale, dell’etica, prepotente, vincente, senza stile, brutale come la maschera della trasmissione tv di successo che lo ha fatto conoscere – quel “The Apprentice” in cui licenziava senza pietà gli aspiranti manager che non avevano capito che l’America è business, lotta, dollari, sangue (e armi). Fino a quel “friendly advice” (un amichevole avvertimento) rivolto a chi lo contrastava all’interno del Grand Old Party che sostanzialmente dice: «Attenzione! Sono io che vi scelgo e che vi indico agli elettori. Senza il mio carisma non arriverete mai in Campidoglio».

Autore del fantomatico Make America Great Again, soffia sulla frustrazione di milioni di losers, i perdenti, gli americani dimenticati dal progresso liberal e dalla cecità dei dem che hanno finito per specchiarsi ingannevolmente nel ridotto dei grandi giornali, come il “New York Times” e il “Washington Post”, credendo che la realtà nazionale fosse quella. Invece la realtà era – per lo meno per mezza America – quella dell’uomo dal ciuffo arancione, che incantava il popolo dei rednecks e degli evangelici e nel frattempo si mangiava a colazione la Corte Suprema, attirando fondi a pioggia dai magnati degli armamenti, del petrolio, di Wall Street. Ora è lì, a Milwaukee, a incoronarsi da solo, come Napoleone. Ostentando con la teatrale furbizia dell’uomo di palcoscenico un nonsoché di moderazione, di studiata saggezza. In molti finiranno per credergli di nuovo.

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