Un bimbo sfollato con la mamma da Khan Yunis verso il confine egiziano di Rafah - Reuters
«Gli scontri sono vicini e il frastuono costante degli aerei, di giorno e notte – soprattutto di notte – ci dà l’emicrania. Poi il boato dei missili e la polvere delle case bombardate, tutto è una pena per noi». Hanan Jamil Alrefi è una giornalista palestinese che vive da sfollata in una tenda a Khan Yunis, nell’accampamento allestito a ottobre dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati della Palestina. Ha lasciato casa sua due mesi fa esatti, ha trascorso diverse notti in auto, poi è arrivata alla tendopoli con la madre, i dieci fratelli, le loro mogli e i loro figli. Verso il centro di Khan Yunis nel sud della Striscia, dove in centinaia di migliaia hanno cercato rifugio, negli ultimi giorni si sono spinti i carri armati israeliani e in queste ore da nord e da est della città giungono notizie di combattimenti intensi.
Le colonne di fumo si vedono anche nelle foto che Hanan ci invia, alternando il suo racconto con le immagini di ciò che c’è attorno a lei. Donne che governano il fuoco per cuocere un poco di pane, panni stesi a mucchi sui fili tirati tra i tendoni bianchi, bambini dappertutto.
In due mesi Hanan ha perso sette chili. «Ho pressoché smesso di mangiare e bere per non dover sempre restare in attesa nelle lunghe code. Non c’è cibo a sufficienza, l’Unrwa distribuisce viveri ogni dieci giorni, ma in quantità che bastano per un giorno o due. La farina è introvabile e, se disponibile, troppo costosa. Un sacco da 25 chili ha raggiunto i 500 shekel (135 dollari). Per le coperte, 30 dollari è il minimo, ma servono. Eravamo fuggiti con abiti leggeri, ma sono passati due mesi, è arrivato il freddo e non abbiamo indumenti adeguati». Soprattutto c’è la pena di trovare servizi igienici. «In sessanta giorni ho fatto la doccia solo 3 volte. Non si accede ai bagni se non dopo code di ore, per poi entrare in ambienti sporchi, senza acqua» prosegue Hanan.
Alle condizioni materiali estreme, si unisce il dolore per chi si è perduto. «Le persone cercano di adattarsi, di convivere, siamo diventati una grande famiglia. Chi ha farina la dà a chi non ne ha. Parliamo tra noi della speranza di ritornare nelle nostre case, anche se distrutte, e parliamo di chi ha perso i propri figli. Io ho perduto più di 20 familiari». E racconta in particolare della cugina. «Era sfollata con noi, ma per andare a lavarsi è rientrata a casa sua, in città a Khan Yunis. L’hanno trovata contro il muro dei vicini. Con lei è morto il figlio di quattro anni».
Con un gruppo di sfollati Hanan si è offerta volontaria e ora collabora con l’Unrwa nella registrazione delle persone in arrivo. «Cerco di assistere la mia gente anche attraverso amici che da fuori, come donatori, mi sostengono. Provo a diffondere energia positiva. Abbiamo distribuito coperte, alimenti e denaro, dato una mano a donne partorienti, fornendo latte e pannolini, ed eparina a quelle incinte». Poi mostra foto di bossoli di proiettile, e racconta che quando scende la sera «tutti cominciano ad avere paura per il freddo, i bombardamenti e gli spari dei cecchini, che raggiungono anche il campo».
Di fronte ai tormenti di cui parla, le chiediamo che sentimenti ci siano, tra le tende, nei confronti di Hamas, oltre che verso gli israeliani. Nella risposta, Hanan sembra soppesare ogni parola. «Ciascuna parte in campo è responsabile di questa guerra e di questo sfollamento. C’è una rabbia diffusa da parte della popolazione nei confronti di tutti, per quello che è successo. Non avevamo bisogno di una guerra né della perdita di migliaia di vite e delle nostre case. C'è rabbia verso tutti».