Una nuova taglia peserebbe su Asia Bibi, la cinquantenne madre di famiglia cattolica condannata a morte per blasfemia nel novembre 2010. Condanna confermata nel novembre dello scorso anno e ora in attesa del giudizio della Corte Suprema. A minacciare la donna rinchiusa nel carcere femminile di Multan, nella provincia del Punjab, sarebbe una taglia equivalente a soli 80 euro che sarebbe consegnata a chi, in cella, durante un’udienza processuale o dopo l’eventuale scarcerazione uccidesse la donna che, suo malgrado, è ormai diventata il simbolo degli abusi commessi con la cosiddetta «legge antiblasfemia». A riferirlo ai media britannici il marito, Ishaq Masih: «I religiosi musulmani la vogliono morta – ha dichiarato al periodico britannico Express –. Hanno decretato che se il tribunale la dovesse assolvere, provvederebbero loro a eseguire la condanna a morte».
Da tempo la donna cristiana è al centro dell’attenzione dei media d’Oltremanica: ne raccolgono le testimonianze, danno spazio agli appelli del marito e ricordano sempre che, al di là dell’appartenenza religiosa, si tratta della prima donna a essere condannata in appello all’impiccagione in Pakistan. Una condizione anomala, un accanimento e una mancanza apparente di sbocchi che alimentano però anche voci e reazioni a volte eccessive. Contrasta infatti l’esiguità della taglia indicata dal settimanale, soprattutto se contrapposta a quella di 500mila rupie (circa 4.300 euro) offerta da un imam della città di Peshawar con una fatwa dopo la condanna in prima istanza. Anche errori sostanziali contenuti nel servizio, la data della condanna a morte, ad esempio, potrebbero essere frutto di eccessivo coinvolgimento come pure di approssimazione dovuta a una vicenda confusa e prolungata. Resta tuttavia certa la condizione di precarietà di Asia Bibi a 2.209 giorni dall’incarcerazione (all'11 luglio 2015). Una condizione che coinvolge anche i familiari, costretti a cambiare abitazione una quindicina di volte negli ultimi cinque anni per il rischio di ritorsioni.