Proteste per le strade di Khartum contro il golpe militare - Reuters
Il Sudan scosso dall’ennesimo golpe è, nei fatti, un Paese spaccato, un Paese in cui, più che il governo dei militari o quello dei civili, a preoccupare la piazza è l’aumento incontrollato dei prezzi del pane e del carburante, la mancanza di medicine e cereali, gli orari ridotti delle scuole, la penuria di beni di prima necessità, bloccati per oltre due settimane da uno sciopero antigovernativo che ha serrato Port Sudan, il principale porto sudanese sul Mar Rosso. Quando milioni di persone si trovano ai limiti della carestia – con un’economia strangolata da riforme monitorate dal Fmi che hanno portato il prezzo di un litro di benzina a raddoppiare nel giro di pochi mesi, il tutto in uno dei maggiori Paesi produttori di petrolio dell’Africa intera – è difficile ricondurre quanto accaduto nelle ultime ore solo a uno scontro tra buoni e cattivi o alle posizioni contrapposte sulla sorte dell’ex dittatore el-Bashir. Premesso che la democrazia è sempre sovrana e che alle armi mai si può dare ragione, oggi sono l’austerity (implementata per poter accedere al programma di cancellazione del debito estero, pari a 50 miliardi di dollari), e l’inflazione (fuori controllo e ben oltre il 400%) le prime indiziate di una situazione allo sbando.
«L’esercito ci porterà il pane»; «Un esercito, un popolo». Sono passati undici giorni da quando migliaia di persone, per le strade di Khartum, facevano risuonare questi slogan nella capitale del Sudan. Si è detto, chissà se a ragione, che quei manifestanti erano stati manipolati e pagati, portati lì da gruppi e partiti che sostenevano le posizioni dell’esercito. Tra questi, una fazione delle Forze per la libertà e il cambiamento, uno dei principali movimenti che due anni fa avevano portato alla caduta di el-Bashir e che ha giocato un ruolo importante nella transizione. Il corteo del 16 ottobre si era concluso con scontri violenti con altri gruppi di manifestanti che invece si opponevano a una svolta militare. Questi ultimi si sono poi ripresi la scena giovedì scorso: quel giorno erano stati i dimostranti favorevoli al governo civile a manifestare contro l’esercito, accusando soprattutto il generale Abdel Fattah al-Burhan, a capo del Consiglio di sovranità e protagonista del golpe di ieri, di essere ancora leale al vecchio dittatore Bashir e troppo contiguo ad un passato da dimenticare.
Da un lato, dunque, un governo civile che ha perso una discreta fetta di consenso a causa di una terribile crisi economica, dall’altra i militari che non accettano di mollare la presa sul Paese. In queste condizioni la condivisione del potere fino alle previste elezioni del prossimo anno si è rivelata impossibile. Già il mese scorso c’era stato un tentativo di golpe, con i leader dell’esercito che avevano esortato l’esecutivo del premier Abdallah Hamdok a invertire la rotta e i leader civili che parlavano di tradimento delle promesse seguite alla rivolta contro Bashir del 2019.
I rappresentanti della società civile hanno ripetutamente lamentato i tentativi di ingerenza dei militari in politica estera e interna. Il governo ha autorizzato la consegna di Bashir alla Corte penale internazionale dell’Aja, dove l’ex dittatore è accusato di crimini contro l’umanità, ma il Consiglio sovrano – l’organismo misto civile-militare a capo della transizione fino alle elezioni – non lo ha fatto. Tensioni ci sono anche sulle indagini relative alle stragi di dimostranti pro-democrazia del 2019, nelle quali sono coinvolte forze militari, e sulla riforma dei potenti paramilitari delle Forze di supporto rapido.
Quella del rispetto della separazione tra autorità militari e potere politico resta certo una delle chiavi per il Sudan di domani. L’Occidente ha già avvertito che una svolta in senso non democratico metterebbe a rischio gli aiuti internazionali. Di più: le tensioni rischiano di bloccare quel minimo di produttività che il Paese può garantire, a partire dalle estrazioni petrolifere. Senza entrate, civili o militari al potere, il Sudan rischia di non avere un futuro. Ma le riforme economiche non possono non tener conto della realtà di un Paese sempre più impoverito.