Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio, fra le case bombardate di Irpin - Comunità di Sant'Egidio
«La prospettiva di un cessate il fuoco non è lontana, è lontanissima». Andrea Riccardi visita l’«Ucraina ferita», come la definisce, e tocca con mano la resistenza di un popolo. «Una resistenza umana intensissima», sottolinea il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che però sembra non imporsi sulla scena mondiale come quella bellica, ben più amplificata. «In Occidente si investe molto sulle armi – racconta da Kiev –. Ma c’è un preoccupante disequilibrio fra l’investimento militare e quello negoziale. Se non si promuove la diplomazia, che è ricerca di una soluzione contro ogni speranza di incontro e dialogo, quale sarà lo sbocco? L’era della globalizzazione ci mostra come ormai le guerre non si concludano, ma si eternizzino. Ed è un dramma. L’Ucraina corre il rischio di dover convivere con un focolaio, che in realtà è un incendio, per anni e anni. Se il prossimo mese sarà come quello passato, perché non pensare che il prossimo anno sarà uguale a quello appena trascorso?».
Da sabato a oggi Riccardi incontra la rete di Sant’Egidio alla prese con un «impegno solidale che è uno degli sforzi maggiori fatti dalla Comunità nella sua storia», spiega. E fa tappa nei luoghi dell’orrore e della speranza del Paese aggredito: dall’hub degli aiuti a Leopoli che Sant’Egidio anima ed è un riferimento per i profughi, alle cittadine di Bucha e Irpin, simboli del male e della distruzione intorno alla capitale con le loro fosse comuni e le case che ancora portano i segni dei bombardamenti. A Kiev l’ex ministro si ferma nella sede dei “Giovani per la pace” colpita dai frammenti di un missile nel marzo di un anno fa, durante i giorni dell’assedio della metropoli. E poi fra gli anziani accanto a cui operano i volontari della Comunità. «Accade che le persone che sono state aiutate abbiano chiesto a loro volta di aiutare – riflette –. Il popolo ucraino ci racconta con i suoi gesti che cos’è davvero lo spirito di condivisione. È un popolo che soffre ma sa rimboccarsi le maniche. E la reputo una risposta al nostro vittimismo occidentale».
È un viaggio personale quello del fondatore di Sant’Egidio. Fra la gente sulle cui spalle «grava tutto il peso della guerra», afferma. Nelle sue giornate a Kiev incontra gli sfollati di Mariupol o Kharkiv, la prima nei territori occupati dall’esercito di Mosca, la seconda a cinquanta chilometri dal confine russo che continua a essere un bersaglio costante dei razzi targati Cremlino. «Penso ai cinque milioni di sfollati interni e agli otto milioni di espatriati. Vedo abitazioni rase al suolo o anziani rimasti senza nessuno. Non possiamo lasciare solo il popolo ucraino. Però occorre prendere atto che purtroppo la dimensione umanitaria è ormai parzialmente trascurata».
Riccardi è consapevole che ci possa essere il pericolo di assuefarsi al conflitto. «È fisiologico che lo slancio degli europei si affievolisca con il tempo, invece di rafforzarsi di fronte ai bisogni crescenti. E mi sembra di avvertire un distacco fra le scelte politiche dei governi e il sentire dell’opinione pubblica. Perciò ribadisco che l’Ucraina non deve sparire dai nostri orizzonti. Certo, non possiamo limitarci a “dare”: serve anche “dire”, ossia soccorrere con le parole. Qui il popolo ha necessità di solidarietà umanitaria e umana. Sant’Egidio lo sperimenta con la sua presenza in moltissime località».
Riccardi entra a Leopoli nella chiesa greco-cattolica della cappellania militare dove una madre accarezza l’immagine del figlio-soldato ucciso al fronte oppure sosta davanti alle foto dei caduti che compaiono sulle mura esterne del monastero dorato di San Michele a Kiev. «Non possiamo rassegnarci all’idea che sull’Ucraina incomba lo spettro della Siria. Allora dico che occorre la pace subito». E cita un’espressione del presidente francese Emmanuel Macron al Meeting di Sant’Egidio dello scorso ottobre a Roma: «C’è bisogno di una pace pura». Poi aggiunge: «Grazie al cielo abbiamo la voce del Papa che ci ricorda l’urgenza della pace. Ormai, però, è una voce unica nel panorama internazionale. Perché i politici ritengono che la parola “pace” sia unicamente sinonimo di cedimento ai russi». Una voce scomoda e inascoltata, almeno finora. «Durante le due guerre mondiali – osserva lo storico – i Papi sono sempre stati invisi alle diverse parti in campo. Infatti chi parla di pace è impopolare mentre domina il fragore delle armi. Ma la storia ricorderà il nome papa Francesco, come ricordiamo quello di Benedetto XV con il suo monito contro l’“inutile strage” nel corso della Grande guerra. La Chiesa, forte della sua esperienza in umanità, come diceva Paolo VI, sa che la guerra è un male assoluto e rappresenta un’avventura senza ritorno. Qualche volta il Papa lo comprende meglio delle stesse Chiese locali che possono essere travolte dal nazionalismo, com’è plausibile che avvenga. Inoltre Francesco ci propone di cambiare punto di vista sul conflitto ucraino, invitandoci a guardarlo non in modo polarizzato ma a partire dalle sofferenze della gente e andando oltre il contingente. Così interroga ciascuno di noi: qual è il futuro? Ancora guerra?».