Pierantonio Costa era il console italiano in Ruanda, nel 1994. Durante il genocidio, dopo quel fatale 6 aprile, per due mesi organizza, e personalmente conduce, il salvataggio di circa 2.000 persone, tra cui 375 bambini di un orfanotrofio, portandoli fuori da un Paese caduto in un inferno di inaudita barbara violenza. Lo fa dilapidando le sue risorse di imprenditore.
Console Costa, cosa ricorda di quel primo giorno di venti anni fa? Immagini precise. L’inizio di una battaglia non si dimentica. Vedo mia moglie con i bambini che si organizza in casa, mentre fuori le sparatorie aumentavano. Con la radio portatile si scambiavano le informazioni e raccoglievo le richieste d’aiuto. Ma nessuno si poteva muovere da casa.
Vi aspettavate quello che poi è accaduto, un genocidio? No, assolutamente no. Non l’ho mai creduto possibile, quel 6 aprile.
Come è potuta accadere questa apocalisse? Era stata programmata. Occorreva solo l’occasione per scatenarla. L’ora zero è scattata con la morte del presidente Habyarimana. Tutte le parti in conflitto avevano interesse a fare quel colpo. Anche se dalla parte del presidente c’era una classe dirigente che con la firma degli accordi di pace, in discussione ad Arusha, Tanzania, perdeva ogni garanzia di amnistia. Dovendo rispondere dei massacri di tutsi avvenuti tra il 1992 e 1993.
Ma la pace sembrava a portata di mano? Non ci sarebbe mai stata una pace tra governativi hutu e forze ribelli tutsi, allora. Quegli accordi stabilivano che il nuovo esercito del Ruanda doveva essere composto per il 60 per cento da soldati dell’Esercito regolare, hutu, e 40 per cento soldati del Fronte pa- triottico, tutsi. Tempo un paio d’anni dopo Arusha e un colpo di stato avrebbe sparigliato le carte. Mi sbagliavo. Tutto è stato giocato in quei 100 giorni di follia. Le liste con i nomi delle persone da eliminare erano già pronte da tempo. E il fuoco della violenza ha bruciato tutto in un attimo.
La comunità internazionale dove ha sbagliato? A Kigali c’era una missione Onu, la Minuar. Milleottocento soldati, di cui 400 belgi, armatissimi e capaci di combattere. Se avessero fatto capire che sarebbero intervenuti in forze, sì, ci sarebbero stati dei morti, forse decine di migliaia, ma la tragedia non avrebbe assunto le dimensioni che conosciamo. Però ci sarebbero stati anche dei bianchi morti.
Dunque chi poteva fare qualcosa ha preferito astenersi? Una settimana dopo la morte del presidente, non c’era più un bianco a Kigali. Ma c’erano sempre i 400 militari belgi e i 1.400 soldati della Minuar. Poi hanno chiuso bottega e sono partiti.
Perché si rischia la propria vita per salvare quella di un altro? Sono entrato in quella spirale perché da principio dovevo farlo come console italiano per andare a cercare i circa 190 nostri connazionali, molti religiosi e volontari. Poi quando ho capito che le barriere dei machete le potevo passare corrompendo la follia omicida, non ho smesso di prendermi i miei rischi. Non sono un eroe. Ho fatto quello che ho fatto perché mi sono reso conto che potevo farlo.
Quante volte si è sentito dare del pazzo ad andare avanti e indietro da quell’inferno? (ride, è l’unica volta
ndr ). Non lo so. Non ricordo. Quando sono entrato in un orfanotrofio e ho visto tutti quei bambini che correvano dei rischi enormi, in quel momento ho solo pensato a come portarli in salvo.
C’è qualcosa che non riesce a perdonarsi, qualcosa che non è riuscito a fare? Sì, ci sono delle cose che non sono riuscito a fare e che avrei dovuto fare. Ho visto uccidere e ho visto morire e non sono riuscito a impedirlo.
Esiste ancora il pericolo che la storia di 20 anni fa si ripeta? È una domanda che mi faccio spesso. Il ruandese non dice mai quello che pensa veramente. Quello che per lui è importante è cosa il suo superiore pensa di lui. La guerra ha fatto del male a tutti quanti e la ferita fa ancora male. Ma c’è il fattore età. Vent’anni dopo, più del 50 per cento dei ruandesi, oggi, sono giovani e non portano con loro implicazioni legate al genocidio, avevano al massimo cinque anni allora. E questa cosa può valere la speranza di ricostruire una convivenza nuova.