L'ex presidente americano Donald Trump - ANSA
Il Fbi "non avrebbe mai dovuto aprire il Russiagate", l'inchiesta su Donald Trump e i suoi presunti legami con Mosca nelle elezioni del 2016: è la conclusione del rapporto del procuratore speciale John Durham, nominato dall'amministrazione Trump per far luce sulle origini e la conduzione di quell'inchiesta, dopo che il tycoon era stato scagionato dallo special counsel Robert Mueller in quella che aveva definito "una caccia alle streghe".
La montagna investigativa di Durham, condensata in 300 pagine, sembra aver partorito il classico topolino: quattro anni di indagini con viaggi anche all'estero, compreso quello molto controverso in Italia, 6,5 milioni di dollari spesi, una condanna minore e due assoluzioni, nessuna raccomandazione finale per nuove accuse o "grandi modifiche" su come il Fbi debba gestire le indagini a sfondo politico. Poca roba, rispetto alle attese di Trump e dei suoi alleati, che si aspettavano di smascherare "il crimine del secolo", un complotto del deep state con gli alti ranghi dell'intelligence per far deragliare la candidatura e la presidenza di The Donald. Ma quanto basta per riaccendere il dibattito politico sullo sfondo delle prossime presidenziali e offrire al tycoon nuovi pretesti per i suoi attacchi ai dem, al Fbi e al dipartimento di Giustizia, con la sponda dei repubblicani al Congresso, dove Durham è già stato chiamato a testimoniare la prossima settimana dal presidente della commissione Giustizia della Camera Jim Jordan.
"Tradimento", "una bufala democratica che ha ingannato me e il popolo americano", "il Congresso deve fare qualcosa, non deve più succedere", si è scatenato l'ex presidente. Accusando il procuratore speciale Jack Smith e gli altri pubblici ministeri che stanno indagando su di lui, da New York ad Atlanta, di fare "lo stesso gioco" del 2016 per sabotare la sua ricandidatura, mentre Mike Pence e Ron DeSantis sono ormai sempre più vicini a sfidarlo.
I passaggi chiave sono quelli in cui Durham accusa il Bureau, allora guidato da James Comey (poi silurato da Trump), di aver aperto frettolosamente nel luglio del 2016 la cosiddetta indagine 'Crossfire Hurricane' senza essere a conoscenza di presunte collusioni tra la campagna del tycoon e la Russia, ma solo sulla base di "informazioni di intelligence grezze, non analizzate e non corroborate". Come il controverso dossier dell'ex spia britannica Christopher Steele o le rivelazioni di un diplomatico australiano sulle confidenze di George Papadopoulos, un membro della campagna di Trump secondo cui i russi avevano materiale compromettente sulla rivale del tycoon, Hillary Clinton. "Il dipartimento di Giustizia e il Fbi non sono riusciti a confermare la loro importante missione di stretta fedeltà alla legge in relazione a determinati eventi e attività descritti in questo rapporto", scrive Durham, stigmatizzando anche il fatto che "almeno da parte di alcuni membri del personale intimamente coinvolti nella vicenda" c'era "una predisposizione ad aprire un'inchiesta su Trump". Il procuratore denuncia anche l'uso di uno standard diverso per soppesare le preoccupazioni sulle presunta interferenze elettorali riguardanti la campagna di Hillary Clinton.
Le conclusioni di Durham sono superate dalla serie di "riforme" ed "azioni correttive" che l'Fbi ha rivendicato di aver già intrapreso, ammettendo che "se fossero state in vigore nel 2016 avrebbero evitato alcuni errori identificati nel rapporto". E sono in contrasto con una precedente indagine dell'ispettore generale del dipartimento di Giustizia, che ha scoperto alcuni problemi nell'inchiesta ma ha stabilito nel dicembre 2019 che c'erano giustificazioni sufficienti per aprirla. Quell'inchiesta si tradusse in una trentina di condanne, comprese quelle di alcuni alleati di Trump, concludendo che la Russia intervenne per aiutare il tycoon e che la sua campagna accolse l'aiuto di Mosca, anche se non c'erano prove di collusione.