L’omicidio, domenica, nella maggiore città pachistana, Karachi, di Khurram Zaki ha privato il Paese di uno dei maggiori attivisti per i diritti umani che, come aveva scritto nella sua pagina di Facebook, intendeva «diffondere idee religiose liberali e condannare l’estremismo in ogni sua forma». Questo è bastato perché Zaki, musulmano sciita, venisse freddato a colpi di arma da fuoco da taleban ispirati da Maulana Abdul Aziz, leader religioso sunnita della Moschea Rossa di Islamabad, diventata ricettacolo di estremismo anche terrorista, in particolare, ma non solo, rivolto proprio contro la minoranza sciita. Difficile oggi avere un’idea diversa del Pakistan che non sia quella di un Paese attraversato da una profonda crisi di identità, sociale, economica, da violenza di molteplice origine. Un Paese che potrebbe cadere in mano all’estremismo religioso, peggio ancora diventare centrale del terrorismo con il rischio che una deriva integralista spazzi via società civile e politica, ne faccia il nucleo di un “califfato” con un retroterra pressoché inesauribile, ma soprattutto dotato degli ordigni nucleari di cui il Paese dispone nell’inquietudine internazionale. Eppure, nell’immensità di quasi 200 milioni di abitanti, nella varietà culturale, etnica e religiosa di un Paese vasto tre volte l’Italia, restano tante realtà, esperienze a indicare una strada diversa, una spe- ranza per la nazione nel suo complesso, senza distinzioni e discriminazioni. Nemmeno la malattia, invalidante e senza cura che lo costringe al 2013 a una vita tra le mura del minuscolo appartamento che condivide con la moglie sopra il primo dei centri da lui fondati, ha abbattuto la caparbietà di Abdul Sattar Edhi, musulmano di fede, che oggi 88enne da oltre mezzo secolo indica alla sua gente una strada di solidarietà senza confini. La sua “missione” è essenzialmente quella di garantire una dignità che passi dall’educazione, dallo sviluppo e – per le attività più note e meritorie – dalla salute. Cure mediche, riabilitazione di malati, tossicodipendenti, progetti di sviluppo e cucine per i poveri. Un’attività, quella organizzata dalla Edhi Foundation, che ha sostenuto 100mila bambini e che coordina oltre 300 centri nel Paese, con il maggiore servizio di ambulanze disponibile per chiunque. Un’immensa opera finanziata dai benefattori che si è estesa anche in alcune realtà estere, ma il cui cuore continua a battere in un vecchio edificio perso nella megalopoli di Karachi. Le donne sono parte consistente di coloro che hanno beneficiato delle iniziative di Edhi e va sottolineato che proprio le donne hanno oggi un ruolo di primo piano per rilanciare uguaglianza e diritti propri, ma anche di tutti e ciascuno. La giovane Malala Yousufzai, con il suo impegno soprattutto per l’educazione delle bambine e delle giovani ha avuto un riferimento forte in Edhi, di cui suo padre ha guidato la raccolta di firme per la proposta al Nobel, ma anche in Hina Jilani e Asma Jehangir. Queste ultime sorelle e per molto tempo sulla strada parallela della carriera legale e dell’impegno a dar vita nel 1986 alla Commissione nazionale per i Diritti umani del Pakistan, oggi tra le voci più forti a indicare insieme problematiche di forte impatto sociale e a proporre soluzioni. La signora Jilani ha scelto una via più diretta di attivismo a favore delle donne, utilizzando le sue capacità, sia di avvocato presso la Corte Suprema del Pakistan negli anni Novanta, sia come Rappresentante speciale dell’Onu per la Difesa dei diritti umani. «Ho sempre pensato che se si è testimoni di un’ingiustizia occorre contrastarla, altrimenti non si è in diritto di lamentarsi» è una frase che esprime il suo carattere Asma Jahangir si è distinta a sua volta più sul fronte dei diritti delle minoranze e in generale dei “senza voce”, fornendo assistenza legale a casi anche famosi per la loro arbitrarietà e il sostegno a condannati per casi di blasfemia. Nota la sua dura opposizione al presidente Musharraf, sotto il cui regime si avviò la deriva integralista attuale che ha accentuato la persecuzione verso le minoranze religiose. Anch’essa ha avuto dall’Onu un incarico significativo, quello di Relatore per le esecuzioni extragiudiziarie, una responsabilità che ha portato alla Jahangir minacce di morte e anche detenzione domiciliare, senza imbavagliarla.