Una manifestazione per denunciare l’escalation a Città del Messico: la violenza dal 2006 continua ad aumentare
Non chiude mai. Il via vai nei pressi della “morgue” – obitorio – di Acapulco è continuo. «L’aeroporto», l’ha soprannominato Guadalupe, residente nella zona, con un pizzico di cinismo macabro messicano. I furgoncini arrivano e ripartono a ogni ora del giorno e della notte. Portano i corpi delle vittime dell’epidemia di violenza che dilania l’ex perla turistica del Pacifico. Nelle celle frigorifere non c’è più posto. I cadaveri vengono adagiati sul pavimento, chiusi in speciali sacchi neri. Le autopsie devono essere fatte a tamburo battente per “liberare lo spazio”. Lo stesso accade in tre quarti della nazione: la frontiera della cosiddetta “narco-guerra” è in piena espansione. Per questo, molti corpi rimangono per sempre anonimi: 35mila sono stati sepolti in fosse comuni senza essere identificati per mancanza di mezzi e tempo. La fila cresce all’assurdo ritmo di quasi un morto ogni quindici minuti: 3,7 all’ora, in base alle cifre elaborate da Semáforo delictivo e Lantia consultores per il Sistema di sicurezza nazionale. Si tratta, dunque, di dati ufficiali.
Nei primi sei mesi del 2018, sono state ammazzate 15.973 persone, il 28 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Eppure il 2017 era stato – secondo le stesse fonti ufficiali – l’annus horribilis della storia messicana, il più violento di sempre, con 25.339 vittime. Un record che rischia, dunque, di essere superato nel 2018. In realtà, le autorità tengono a precisare che “solo” 11mila dei 16mila sarebbero responsabilità diretta delle mafie. Un’informazione, in realtà, difficile da verificare (e per molti «di comodo») dato il tasso di impunità a quota 98 per cento. Molti delitti, spesso, vengono liquidati come rapine e aggressioni comuni, per mancanza di indagini adeguate. «Ai morti, poi, vanno aggiunti gli ormai 37mila desaparecidos, gli sfollati, i feriti», sottolinea Carlos Cruz, noto attivista per i diritti umani e fondatore di Cauce ciudadano, organizzazione antimafia, parte di Red Alas - América Latina alternativa social di Libera. Il tragico conteggio, inoltre, si ferma al 30 giugno. Dal primo luglio – giorno delle elezioni che hanno visto la vittoria del progressista Andrés Manuel López Obrador – la situazione sembra peggiorare ulteriormente. Il lungo passaggio di consegne – il neo-presidente si insedierà il primo dicembre – apre una fase di “vuoto di potere”. Di cui i narcos – multinazionali del crimine, il cui business illecito va dal traffico di droga alla tratta, alla pirateria, alle estorsioni – stanno approfittando. L’idea è regolare i “conti in sospeso” con i rivali e espandersi sul territorio, con il terrore. Questo spiega perché la violenza sia aumentata in 27 dei 32 Stati della nazione, con epicentro nella zona del Jalisco e Stati limitrofi, dove si affrontano le potenti mafie di Sinaloa e Jalisco Nueva Generación.
Sottrarre spazi e poteri alle mafie è la principale sfida per il nuovo presidente. Lo afferma anche la Drug and Enforcement Administration, l’agenzia anti-droga Usa, nell’ultimo studio. Per affrontarla, Amlo, come lo hanno soprannominato i messicani, ha promesso di cambiare approccio rispetto ai due predecessori. Alla linea “militare” e “muscolare”, inaugurata dal conservatore Felipe Calderón e proseguita dal liberale Enrique Peña Nieto, López Obrador contrappone un approccio sociale, basato su un massiccio investimento nella prevenzione, in un percorso di smobilitazione e reintegrazione per i “pesci piccoli” dei cartelli della droga e in una Commissione per la verità e la riconciliazione. Misure che ricordano quelle adottate in contesti bellici, in vista di un’ipotetica pacificazione.
In Messico, però, formalmente non c’è una guerra. Ciò che la politica, almeno finora, ha negato, lo afferma la realtà. Negli ultimi undici anni, da quando Calderón ha schierato l’esercito contro i narcos, il vortice di violenza ha ingoiato almeno 255mila vite. Sette volte la cifra dei morti nello stesso periodo nell’Afghanistan post-taleban. I numeri messicani, nonostante la scarsa visibilità mediatica, sono paragonabili a quelli del conflitto civile siriano. Un’altra affinità fra i due scenari è la strage di giornalisti, colpiti – al pari dei sacerdoti – per creare panico nella popolazione. Entrambi i Paesi si sono classificati in prima posizione, “ex aequo”, per reporter assassinati nel 2017: dodici. Quest’anno, in Messico, ne sono stati uccisi già sette. L’ultimo, Rubén Pat, direttore del quotidiano online Playa News di Playa del Carmen, tre giorni fa. La settimana precedente, aveva denunciato di essere stato rapito e sequestrato da un gruppo di poliziotti al soldo dei narcos. L’omicidio di Pat segna un ulteriore elemento di allarme. Questo è avvenuto nella zona più turistica del Paese, la cosiddetta “Riviera maya”, a lungo risparmiata dalle mafie – che investono nei resort –, proprio come la capitale. La “guerra dei narcos” è stato un conflitto a “geometria variabile” o a “macchia di leopardo”, con isole di relativa tranquillità nel mezzo della mattanza. Almeno fino ad ora. Nemmeno le ultime oasi sembrano riuscire a sfuggire all’attuale escalation.