La regina Elisabetta ha visitato ieri i bambini feriti ricoverati nellì'ospedale pediatrico di Manchester (Ansa/Ap)
Piccoli gesti stanno rincuorando la città di Manchester e i suoi abitanti dopo i tragici eventi di lunedì sera che hanno lasciato 22 morti e più di una cinquantina di feriti. Come il minuto di silenzio rispettato alle undici di mattina in tutte le città del Regno Unito, l’interruzione della campagna elettorale (che riprenderà soltanto oggi), o le bandiere a mezz’asta, le preghiere e le veglie a lume di candela. O quella colletta organizzata per comprare un regalo ai medici: diecimila sterline in poco tempo.
I gesti più apprezzati sono stati proprio quelli instancabili degli eroi più silenziosi, quei soccorritori, medici, paramedici, infermieri e tutto lo staff degli ospedali di Manchester che da lunedì sera non si sono mai fermati. Anche la regina Elisabetta, che a novantun anni ha lasciato Londra per recarsi a trovare i feriti in un ospedale a Manchester e per questo è stata soprannominata dai media «sua maestà gentilezza», ha voluto ringraziare quei «medici eroici», così li ha chiamati, «che hanno lavorato senza tregua per tenere in vita i bambini dopo la tragedia». Millie Robson è uno dei feriti che Elisabetta II ha visitato: una ragazzina di 15 anni molto coraggiosa che sul luogo dell’attentato, colpita dalle scorie della bomba e sanguinante, ha invitato i paramedici che le erano venuti in soccorso di andare ad aiutare altre persone mentre lei cercava di tamponare le ferite con la fascia a tracolla della borsa. «È stato molto bello incontrare la regina – ha raccontato ieri dal suo letto d’ospedale dove sta guarendo da due ferite profonde alla gamba e una al braccio –. È stata davvero molto gentile». Molti dei medici coinvolti nelle operazioni di soccorso cominciano solo ora a riprendersi dallo choc. «È una tragedia che ci ha toccati tutti profondamente – racconta Colin Wasson dello Stepping Hill Hospital –, non solo ci identifichiamo con Manchester ma molti di noi conoscevano i feriti».
«Il bisogno di abbracciare i miei cari»
«Quando sono tornata a casa – racconta Charlotte Brownhill, infermiera nello stesso ospedale – ho pianto, pianto e pianto, e sono stata presa da un bisogno indescrivibile di abbracciare i miei cari». La velocità delle schegge della bomba era enorme, spiega Joe O’Brien, un’altra infermiera. «E i pezzi di metallo distruggono tutto quello che incontrano: pelle, muscoli, nervi, ossa. Abbiamo trattato persone ferite ovunque. Lavoro in questo ospedale da tanti anni ma non ho mai visto niente di simile». Nonostante l’adrenalina e la concentrazione dei primi monenti, ammette O’Brien, «il crollo dopo il turno è stato inevitabile. Quando sono arrivata a casa sono cominciate a scendere le lacrime. Pensavo a tutte quelle mamme disperate».
Uno dei colleghi dell’infermiera, un medico, aveva la figlia al concerto. «Ha visto che la figlia era salva, è venuto subito al lavoro e non ha assolutamente menzionato il fatto». Il momento più commovente, conclude la O’Brien, «è stato quando sono stata ringraziata da una signora anziana che aveva perso la nipote. Non posso neanche cominciare a immaginare lo strazio di questa donna, eppure con grande garbo ci ha detto grazie. L’amore, l’umanità e il supporto hanno illuminato il nostro lavoro e ci danno la forza di andare avanti».