Soldato di fronte al simbolo del Daesh a Karamles
Il Daesh, al-Qaeda, il jihad, il Califfato, i taleban, Benladen: come pezzi di un puzzle che, pagina dopo pagina, completano il quadro in cui tutti siamo finiti, i nomi che hanno riempito (di terrore) la storia dei nostri ultimi due decenni affollano le pagine de Il mito del Califfato. Le radici indiane dell’Isis di Giovannni Bensi (Sandro Teti Editore, pag. 204). Leggere l’opera postuma di Bensi – storico, scrittore, giornalista esperto di Russia e area ex sovietica, che per quasi cinquant’anni ha pubblicato su Avvenire– è capire, con sorprendente facilità, che cosa è successo, cosa sta succedendo, alle società occidentali contemporanee macchiate dall’orrore jihadista. Capire dove tutto è cominciato. Soprattutto, perché. Bensi ripristina connessioni e conferisce organicità ai tanti eventi drammatici – il fondamentalismo in Medio Oriente, il suo “specchio” nell’Europa degli attentati – che ci stiamo (pur- troppo) “abituando” a registrare nella loro tragica episodicità, mentre il disegno sottostante si diluisce sempre più nel tanto sangue versato. Una trama fitta e complicata – sull’asse della storia e della geografia – che tutto lega e tiene insieme, e che questo libro ricostruisce e restituisce con linguaggio pulito e puntualissimo: la cifra dell’autore. Un cammino che inizia in India, e attraversa il Pakistan, e poi l’Afghanistan, fino ad arrivare in Siria e Iraq. Tra successi, fallimenti, visioni allucinanti, visionari allucinati, insospettabili ingenuità e tanti equivoci. A cominciare da quello per cui l’islamismo radicale sarebbe nato in Medio Oriente. Bensi colloca l’“inizio” nel subcontinente indiano. E questo inizio ha un nome: quello del politico e teologo musulmano Sayyd Abu l-A’la Maududi. Pressoché sconosciuto in Occidente, viene considerato uno dei più importanti pensatori islamici del XX secolo. Fu lui a costruire l’impianto ideologico per la costruzione di un “Califfato” come modello di Stato confessionale e assolutista retto da un “Califfo”, capo «spirituale e temporale dell’universo musulmano con poteri pressoché illimitati».
Era indiano, Maududi, anche se la sua attività si è svolta prevalentemente in Pakistan. Da lì ha plasmato, negli anni, il pensiero dell’islam regionale. La sua eredità è stata raccolta – e rielaborata con spietata astuzia – da uno dei protagonisti più oscuri del nostro presente: Osama Benladen. Fu lui, nel 2001 a resuscitare il «mito». Atteggiandosi a sacerdote, guida spirituale e imam, seppe giocare sulla «nostalgia» di un islam potente e radicale. Quella «nostalgia» evocata nel proclama con cui, il 7 ottobre di quell’anno, attraverso al-Jazeera, si annunciò al mondo come «vendicatore» dell’«umiliazione» e del «disprezzo » che «la nostra comunità – declamò Banladen – ha provato per più di 80 anni», cioè dalla fine del sultanato ottomano. Bensi parte da quel testo e ci accompagna attraverso lo “Stato islamico dell’Emirato del Caucaso” annunciato nel 2007 (la prima «manifestazione» di quella «nostalgia» recuperata dal capo di al-Qaeda), fino al secondo grande tentativo «calafatista », nel 2014: lo “Stato islamico in Iraq e nel Levante”, l’Isis. Giovanni Bensi è morto nel marzo del 2016. Non ha potuto vedere le difficoltà che il Daesh sta affrontando sul suo terreno, nel Siraq. Ma ha saputo intuire che il «mito del Califfato», quel «senso di frustrazione di offesa» per la caduta dell’Impero ottomano, e quella «aspirazione profonda a ristabilirlo», a «ricostruire qualcosa di simile che rinnovi il passato splendore e la potenza islamica», è la più forte «nostalgia» del mondo islamico. Una nostalgia che si nutre di violenza. Che non si arrenderà. Neanche di fronte alle più imponente offensiva militare. E che va disinnescata con l’arma della ragione.