Ansa
Il finale di partita che si giocherà fra il governo britannico e l’Unione Europea nei prossimi incontri al tavolo dei Ventisette ha in palio la Brexit, ovvero l’uscita “soft” (ma con il cosiddetto backstop, la clausola di salvaguardia sulla frontiera irlandese) che consentirebbe al Regno unito di mantenere un’unione doganale con la Ue fino a quando non sarà siglato un accordo commerciale.
Sempre che la fronda che punta a disarcionare Theresa May non riesca nel proprio intento (l’arma prediletta sono le dimissioni a catena dei membri del gabinetto, la Francia di Macron docet) e la costringa a rivedere quello che appare a tutti gli effetti come una moneta di scambio: accordo doganale con Bruxelles in cambio di un’uscita di scena poco traumatica.
Ma quello del Regno Unito non è l’unico dei problemi che si affacciano all’orizzonte dell’Europa.
Alla Brexit si somma l’offensiva dei sovranisti. Messi insieme – questi ultimi – fanno davvero paura.
Lo svedese Jimmie Akesson, l’ungherese Victor Orbán, l’austriaco Heinz-Christian Strache del Freiheitliche Partei Österreichs, la tedesca di Alternative für Deutschland Alice Weidel, il Pvv dell’olandese Geert Wilders, il Front National di Marine Le Pen, il Dansk Folkeparti di Copenaghen, il famigerato Gruppo di Visegrád. Minacciano di scardinare l’Europa, di svuotare lo scrigno di quell’intesa nata negli anni lontani della ricostruzione sotto gli auspici di una riconciliazione che via via si è trasformata in una poderosa realtà economica e insieme in una macchina di regole inesorabili quanto indispensabili.
Fanno paura, certo. Ma la paura che toglie il sonno a molte cancellerie – europee e non – dovrà pur sempre fare i conti con i numeri. E i numeri – un documento per ora ancora riservato lo attesta – dicono che i deputati populisti potranno aspirare al massimo a 210 seggi su 751. Se tutto va bene, visto che divisi come sono non è affatto certo che formeranno un gruppo unico, anzi è assai più probabile che quel Fronte delle Libertà (ci ricorda qualcosa?) non superi quota 175. E se scomponiamo la galassia sovranista ed euroscettica nelle sue componenti territoriali, le percentuali non sono poi così terrificanti: i Democratici svedesi non superano il 17%, i popolari danesi sono al 21%, il Pvv olandese è fermo al 13,1%, l’Afd tedesco al 13%, i nazionalisti slovacchi all’8%, il Front National, di Le Pen al 13,%, i greci di Alba Dorata al 7%.
I pericoli veri semmai si annidano in quel 44,5% di Unione Civica che condiziona la deriva ungherese, di quel 37,6% di Giustizia e Libertà che tanto pesa in Polonia, di quel 26% del Fpö austriaco, e - non scordiamolo - di quel blocco giallo-verde italiano che punta dritto al cuore dell’Europa. Qualcuno dice che fra qualche mese il nord Europa potrebbe essere quasi per intero sovranista e che alle elezioni di maggio metà del continente lo sarà. I numeri tuttavia – e soprattutto gli egoismi nazionali (propellente assoluto dei populismi, ma anche il loro stesso limite) – continuano a dirci di no.
È poco verosimile che i nazionalisti ungheresi di Orbán possano abbandonare la comoda greppia del Ppe (per mantenere la maggioranza al Parlamento di Strasburgo alla famiglia politica del Partito popolare europeo occorre anche il concorso degli ungheresi) per traghettarsi in una famiglia politica, quella dei sovranisti, che sarà sì probabilmente la seconda a spese del moribondo Pse, ma che conterà molto poco al momento della spartizione delle cariche e dei poteri.
E dove le velleità dei tanti populismi («stupidi e dai nazionalismi limitati », come li ha bollati il presidente della Commissione Europea Juncker) finiranno per dover fare i conti con quell’asse Parigi-Berlino, antico sodalizio carolingio ammaccato quanto si vuole (grazie anche al colpevole letargo delle sinistre), ma di fatto l’unico che può ancora tenere insieme l’Europa. Prima che xenofobi, sovranisti, nostalgici del nazismo e rinascenti filorussi (pensiamo alla sorpresa di qualche giorno fa alle elezioni politiche in Lettonia) abbiano la meglio.