Le modalità possono cambiare, ma l’origine del male è profonda quanto difficilmente estirpabile, visto che le sue radici sono antiche come l’America dei Padri fondatori, di George Washington, di quel Cotton Kingdom popolato di schiavi neri sbarcati a decine di migliaia sulle spiagge americane e scambiati sul mercato delle braccia come commodities, merce di medio pregio la cui origine umana era sostanzialmente ignorata.
L’uomo bianco, quello del “fardello” di Rudyard Kipling (“ The White Man’s Burden”) e della Mission Civilisatrice dei colonialisti francesi il nero lo ha sempre visto così, come lo stigma di una diseguaglianza reputata naturale, da estendere secondo convenienza anche ai latinos, agli ebrei, ai nativi americani, agli italiani. La morte di George Floyd s’inscrive nel lungo capitolo della sottaciuta supremazia bianca che permea e corrode con l’acido delle sue ansie inconfesse la linfa della società americana conducendola via via a un’impaurita autosegregazione. Una società – quella principalmente wasp (bianca, anglosassone, protestante), ma non soltanto – di cui il presidente Trump (e con lui vecchi e nuovi “consigliori”, come Steve Bannon) è l’abile usufruttuario, perché se da un lato costituisce il grosso della sua base elettorale, dall’altro rappresenta l’argine, la muraglia che l’America ha da subito edificato attorno ai neri e alle culture/sottoculture dei diversi.
Oggi, in epoca di correttezza politica, sarebbe impensabile produrre un film come «The Birth of a Nation di David Griffith», che nel 1915 glorificava la nascita del Ku Klux Klan. Ma i bianchi cappucci di allora sono i bisnonni dei suprematisti di oggi, quelli che tre anni fa marciarono a Charlottesville in Virginia dietro al loro gran maestro, fervido sostenitore di Donald Trump, per protestare contro la rimozione di una statua del generale Lee, fra i quali c’era il ventenne James Alex Fields, che carico d’odio pigiò l’acceleratore della sua Dodge Challenger travolgendo la folla che li contestava.
Proteste a Los Angeles - Ansa
È il cuore buio dell’America, il male segreto nutrito da quel rancore cupo di chi si reputa irragionevolmente migliore. Come forse il poliziotto Derek Chauvin, l’uomo responsabile della morte di George Floyd a Minneapolis. Pare che i due si conoscessero già e certe dinamiche vanno ancora chiarite, ma il fatto resta: l’ordinaria morte di un nero. Come mezzo nero e mezzo ispanico era il giornalista arrestato l’altro giorno mentre riprendeva i tumulti in città. La vicenda di Floyd (a proposito: a quando una nuova ballad di Bob Dylan, su questo tragico epigono dei vari Emmett Till, Ruby «Hurricane» Carter, Hattie Carroll?) ha riacceso la fiamma della rivolta che da sempre alligna sotto la cenere dell’America: dalla sommossa di Tulsa in Oklahoma nel 1921 (300 morti, 800 feriti), alla vera e propria guerra civile a Watts, Los Angeles, del 1965 (34 morti, oltre mille feriti, quasi 4mila arresti), dagli scontri di Detroit e Newark del 1967 (23 morti, settecento feriti) al pestaggio di Rodney King da parte della polizia a Los Angeles del 1992 (63 morti, 2.383 feriti, 12mila arresti), un catalogo infinito dal copione ostinatamente simile.
Il sito mappingpoliceviolence.org tiene una scrupolosa contabilità dei decessi causati dalla polizia americana. Nel 2019 quasi millecento morti, di cui il 24% cittadini di colore. La probabilità che un nero venga ucciso dalla polizia è tripla rispetto a quella di un bianco e doppia rispetto a un ispanico. Tra il 2013 e il 2019 il 96% degli agenti di polizia responsabili di omicidio non è stato rinviato a giudizio, solo il 3% è stato processato, solo l’1% condannato. Sembra un ritorno agli anni Sessanta, e forse di fatto lo è. Con l’aggravante del coronavirus: che ha allargato le diseguaglianze, colpito massicciamente i neri e le etnie più svantaggiate. La reazione è inevitabile: «Sappiamo sparare anche noi», dicono a Trump gli attivisti di “Black Lives Matter”. E non è una bella promessa. L’America brucia di nuovo.