Decine di migliaia di israeliani hanno partecipato alla marcia di protesta partita martedì da Tel Aviv e arrivata oggi a Gerusalemme, davanti alla Knesset - Ansa
Il fiume di bandiere bianche e blu ha costeggiato per quattro giorni la Hihgway 1 gonfiandosi di determinazione contro la riforma giudiziaria del governo Netanyahu. Sessantasei chilometri di rabbia, da Tel Aviv a Gerusalemme, sfociata davanti alla Knesset che oggi voterà passaggi fondamentali del provvedimento contestato.
Come all’aeroporto Ben Gurion l’altra settimana, come a Kaplan Street per sette mesi, tutta Israele si è contratta in uno spazio relativamente piccolo: i manifestanti da una parte, il cordone degli agenti dall’altra; gli sguardi bassi delle famiglie charedi con i passeggini; quelli duri dei giovani con le kippot srugot a righe colorate; gruppetti di arabi quasi divertiti da quello spettacolo di israeliani-contro-israeliani accampato nell’aria satura di rumore: fischietti, tamburelli, e quell’urlo: «Democratia-democratia».
Le nuove “tribù” di Israele – il movimento pro-democrazia, gli ultraortodossi, i sionisti religiosi, gli arabi-israeliani – si stanno confrontando sul campo di battaglia di un provvedimento legislativo che forse nessuno sa nemmeno più cosa proponga esattamente ma che di sicuro ha diviso come mai prima la società civile, rafforzando identità che avevano imparato a convivere e che adesso si ritrovano su fronti opposti, ognuna barricata dentro le proprie ragioni e con una solida rappresentanza nel governo.
«Siamo già stati qui», ha commentato nei giorni scorsi su Haaretz, Daniel Gordis, scrittore e analista tra i più influenti in circolazione, facendo riferimento al periodo biblico e alla faida tra le tribù settentrionali e quelle meridionali. «Era una faccenda di tasse, ma in realtà si trattava di gelosia», ha sottolineato, richiamando con preoccupazione lo «tsunami di rabbia reciproca» innescato dal confronto sulla magistratura. «Israele – ha aggiunto – è fondata su un matrimonio tra gruppi con visioni diverse che hanno saputo frenare il loro potere, la loro autonomia, per un bene più grande: una nazione per il popolo ebraico». La domanda è se adesso queste nuove tribù sapranno fare il passo giusto.
I manifestanti pro-democrazia
Non è particolarmente divertente infilarsi su un treno o un taxi alla fine di una giornata di lavoro o terminato lo Shabbat per raggiungere l’aeroporto, le stazioni ferroviarie, le sedi governative o l’incrocio di Kaplan, a Tel Aviv, per rivendicare il carattere democratico di Israele. Da 29 settimane centinaia di migliaia di israeliani lo fanno perché mai come adesso, nei 75 anni di vita dello Stato, percepiscono un pericolo grande e incombente sulla casa comune. Sono perlopiù laici, e non perdonano a Netanyahu la deriva che rischia di consegnare il Paese a una classe dirigente estremista e divisiva. Sono operai, ingegneri, studenti, professori, militari; sono di destra e sono di sinistra; sono, come si dice, gente comune, che prima di questo governo si era forse anche troppo adagiata sulla certezza di vivere in una Nazione sicura e forte. Tanti, all’ultima elezione, avevano scelto Netanyahu, e ora si chiedono cosa sia successo nella testa di un uomo che ha saputo tenere per vent’anni, con polso fermo, il Paese più complicato del mondo. I più si riconoscono nella proposta politica dell’opposizione centrista guidata da Yair Lapid e Benny Gantz. Tutti si dicono pronti ad andare fino in fondo, anche se non è ancora chiaro cosa ci sia, in questo fondo: se il ritiro della riforma giudiziaria o di tutto il governo o cosa. I giornali sottolineano con insistenza un effetto collaterale decisamente positivo: parlano di un «rinascimento israeliano», di un nuovo sionismo che attraversa tutta la società civile, di una riscoperta dell’identità ebraica che ritrova riti e senso religiosi. La direzione è incerta, ma le strade si riempiono ogni settimana.
Ultraortodossi e nazionalisti religiosi
Dall’altra parte della barricata, a sostenere, per convenienza e opportunità politica, la riforma di Netanyahu, ci sono i charedim (gli ultraortodossi) e gli ultranazionalisti, in gran parte religiosi (i coloni, soprattutto). I due gruppi hanno visioni dell’ebraismo diametralmente opposte ma che, per una specie di dispetto della storia, hanno finito per ricongiungersi, agli estremi, sul percorso di contrapposizione alla Israele laica e progressista che da mesi scende in piazza.
Studiano la Torah e osservano scrupolosamente l’halacha (la legge ebraica) i primi, che rappresentano il 10% circa della popolazione totale. Si considerano custodi di un ebraismo autentico e conservatore che rifiuta le istanze della società liberale e democratica; non vogliono fare il servizio di leva e sono aspramente antisionisti in base alla loro interpretazione del Talmud. Vivono in comunità chiuse e coese (come Bnei Brak, vicino a Tel Aviv, o Mea Shearim, a Gerusalemme), e sono rappresentati politicamente dai due partiti Shas (sefarditi) e United Torah Judaism (ashkenaziti), alleati di Netanyahu che, praticamente da sempre, garantisce loro protezione e finanziamenti statali. Privilegi che la riforma giudiziaria finirebbe per ampliare e consolidare.
Tutt’altro il punto di vista degli ultra-nazionalisti religiosi, che, specialmente negli ultimi anni, hanno sposato in pieno il progetto di espansione nei territori. Anche loro seguono la legge ebraica, studiano nelle yeshivot, e campano grazie agli aiuti statali, ma si sentono portatori di un sionismo messianico che li ha collocati negli insediamenti in Cisgiordania – sostanzialmente isolati dal resto della comunità israeliana – a vedersela con i palestinesi. Sono loro i protagonisti dei cosiddetti “pogrom” di Hawara contro la popolazione araba. Loro i responsabili dei frequenti attacchi contro la minoranza cristiano-palestinese. Loro i primi alleati del nuovo governo di destra-destra di Netanyahu, che ha trovato in Ytamar Ben-Gvir – leader di Potere ebraico che vive nell’insediamento di Kiryat Arba, in Cisgiordania – e Betzalel Smotrich – del Partito sionista religioso, che sta nella colonia di Kedumim, sempre in Cigiordania – gli unici due compagni possibili per formare la nuova coalizione di governo. Lo stereotipo li vuole estremisti e aggressivi nella gestione del territorio, che contendono metro dopo metro con gli arabi. Vengono considerati una minaccia per numeri (sono più di 500mila, in costante crescita), e potere. E, a volte, si comportano effettivamente come tali.
La comunità arabo-israeliana
Gli arabi-israeliani non godono più di rappresentanza politica: nel governo precedente c’era il partito Raam, di Mansour Abbas, poi tutto è naufragato con le ultime elezioni. E sì che la comunità è in costante crescita: quasi due milioni di persone, il 21% della popolazione. Musulmani o cristiani, tendono a non partecipare al voto, a restare in disparte, metà palestinesi e metà israeliani. Vengono chiamati “aravim”, arabi, con una sottolineatura negativa che sa ancora di discriminazione. Vivono nelle città miste, spesso disagiate, con istituzioni e scuole proprie. L’arabo in famiglia, l’ebraico fuori. Non hanno preso posizione in questo scontro sulla riforma e in tanti si sono chiesti perché. Sarebbe nel loro interesse contrastare un governo di estrema destra che prevede misure escludenti per la loro comunità. Tanto più che molta parte della società israeliana è pronta a mettersi in cammino al loro fianco, in una prospettiva di integrazione che aveva mosso i primi passi con il precedente governo Lapid. Se c’è un futuro per Israele è proprio da queste parti che va cercato. Evidentemente, è ancora presto. Ma in tutto questo rumore, forse un segnale sta passando.
I manifestanti pro-democrazia arrivati a Gerusalemme con una lunga marcia partita da Tel Aviv - Reuters