Padre Sergio Palamarchuk, il prete greco-cattolico esule due volte, davanti alla chiesa di Pokrovsk - Gambassi
Sembra una sorta di bomboniera la minuscola chiesa di San Giorgio con le sue cinque cupolette celesti. Incastonata com’è nell’ultimo angolo di un quartiere dormitorio di periferia. Gli orti intorno la fanno apparire come una parrocchia di campagna, anche se è la sola presenza greco-cattolica a Pokrovsk, 75mila abitanti prima della guerra e oggi una delle ultime città ancora ucraine prima della linea di combattimento che divide la regione di Donetsk libera da quella occupata dall’esercito russo. «Siamo abituate al chiasso», dice Victoria Ribanova a nome delle donne che escono dalla chiesa. Chiasso, per loro, è l’eco sinistro dei colpi d’artiglieria che per le strade rimbalzano dal fronte a trenta chilometri o quello dei razzi che cadono. Erano fuggite tutte un anno fa, quando è iniziata l’invasione su vasta scala. Sono tornate anche se, raccontano, «con i nostri figli dobbiamo dormire in bagno o nel corridoio di casa quando suonano gli allarmi perché sono gli angoli più sicuri dei nostri appartamenti». E subito aggiungono: «Non resistevamo lontano da qui».
Non ha resistito neppure padre Sergio Palamarchuk che di questo angolo dell’Ucraina orientale è originario. Ha chiesto lui di diventare parroco sotto le bombe, dopo otto mesi da evacuato. «In realtà sono un esiliato “doppio”», sorride. Ma nella battuta c’è tutta la sofferenza di chi ha dovuto lasciare per due volte le sue terre. Due volte costretto a fuggire e ad abbandonare tutto per il delirio della Russia che considera il Donbass una sua colonia. Prima da Donetsk dove è nato; poi da Lysychansk dove guidava tre comunità. Quarant’anni compiuti a febbraio, barba lunga e occhi chiari, vive in una casa senza riscaldamento. È la più vicina alla chiesa accanto a cui ha creato un hub della solidarietà nel prefabbricato donato dall’Italia dove fa arrivare cibo e abiti destinati ai poveri di guerra.
Padre Sergio Palamarchuk con le sue parrocchiane nella chiesa di Pokrovsk - Gambassi
Per padre Sergio, come per la gente di qui, le armi dettano legge non da un anno, ma dal 2014. «Ero a studiare teologia missionaria alla Pontificia Università Urbaniana a Roma quando sono cominciati gli scontri dei separatisti russi. Ero partito da Donetsk nel 2013: è stata l’ultima volta che ho messo piede nella mia città», racconta. Non ha mai dato l’addio al capoluogo dove viveva la famiglia e dove è stato ordinato sacerdote nella Cattedrale greco-cattolica il giorno in cui si celebra San Nicola. «È una falsità sostenere che noi di Donetsk volevamo passare con Mosca. Parlare russo non significa essere favorevoli all’annessione. Poi siamo un crogiuolo di culture ma il substrato è ucraino». E nel suo Donbass è voluto tornare dopo aver concluso la formazione romana. Parroco a Lysychansk che un anno fa sarebbe salita alla ribalta insieme con Severodonetsk come uno dei più atroci campi di battaglia nei primi mesi del conflitto su vasta scala. «Anche prima i villaggi venivano attaccati. Ma ricordo ancora la telefonata della notte del 24 febbraio 2022 quando i bambini di uno degli abitati dove facevo servizio mi riferivano fra le lacrime della pioggia di fuoco che si stava abbattendo sulle loro case». Dopo pochi giorni anche padre Sergio è stato obbligato ad andarsene. «Però per settimane ho consegnato cibo alle persone sotto attacco e poi le ho aiutate a evacuare». Mille quelle portate in salvo facendo novecento chilometri ogni volta con il suo pullmino.
Padre Sergio Palamarchuk nella chiesa di Pokrovsk - Gambassi
È lo stesso veicolo con cui adesso si muove per Pokrovsk. Una zona contesa, come dicono i lampioni dipinti a uno a uno con i colori dell’Ucraina o le vetture verde militare che vengono vendute nelle concessionarie ancora integre. Nell’autoradio sempre un cd di brani per bambini. «Li cantavamo negli incontri parrocchiali. Solo loro, i miei piccoli, quello che più mi manca. Mi sento come Rachele che piange per i figli, si legge nella Bibbia». Alcuni sono all’estero; il resto sparsi per l’Ucraina. Durante l’estate li ha visitati in decine di località, in una sorta di viaggio della speranza fra i parrocchiani della diaspora. Non c’è rancore in padre Sergio. Solo amarezza. Al suo fianco, nei giorni di Pasqua, il nuovo vescovo ausiliare di Donetsk, Maksym Ryabukha, anche lui esule dalla città in mano russa dove ha sede l’esarcato e dove non può entrare. «Qui sono le mie radici – ripete padre Sergio –. Qui desidero essere prete. E per chi è rimasto la presenza del sacerdote intende testimoniare che Dio non abbandona mai nessuno e nella prova è a fianco di ciascuno di noi».