sabato 5 ottobre 2024
Il diplomatico Issacharoff: «È la base per un’intesa con i vicini arabi che isoli l’Iran. Ma senza il ritorno degli ostaggi non c’è futuro»
Jeremy Issacharoff

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Anche oggi, come ogni settimana da quasi un anno, Jeremy Issacharoff e la moglie si uniranno alla protesta per chiedere la liberazione dei 101 ostaggi ancora prigionieri a Gaza. «Senza il loro ritorno a casa non ci può esserci vittoria contro Hamas o Teheran o chiunque altro minacci la sicurezza di Israele. È indispensabile perché la società possa riprendersi dal trauma del 7 ottobre», afferma il diplomatico, a lungo vice direttore generale del ministero degli Esteri di Tel Aviv dove si è occupato in particolare del dossier iraniano e ex ambasciatore a Berlino.

Come ottenerne il rilascio?

Con un accordo di cessate il fuoco temporaneo. È la soluzione più efficace. I numeri lo dimostrano. Con l’intesa di novembre, abbiamo ottenuto indietro 105 persone nel giro di una settimana. Le forze armate sono riuscite a riscattarne qualche decina in un anno. La liberazione dei sequestrati deve essere la priorità del governo.

L’attenzione, però, ora è concentrata sulla risposta all’Iran. Crede che ci sarà?

Israele deve rispondere. Un attacco massiccio con missili balistici come quello di martedì – ancor più dell’altro pesante raid di aprile – mostra un livello di ostilità inedito da parte di Teheran. Ormai non si agisce più solo mediante i “proxy” – Hamas, Hezbollah, Houthi –, colpisce in modo diretto. La reazione israeliana, però, concertata con Washington, non dovrebbe essere esclusivamente militare. La Repubblica islamica va affrontata in arene multiple. Economiche e diplomatiche, in particolare, con l’imposizione di sanzioni che fermino il suo programma di arricchimento dell’uranio, ormai in fase avanzata. L’Iran non rappresenta una minaccia solamente per Israele ma anche per gli Stati arabi del Medio Oriente. È necessario, dunque, affrontarla insieme.

È ancora possibile dopo il 7 ottobre?

Certo, ancora di più. A patto di riformulare la visione di un orizzonte politico insieme ai palestinesi. Non è più pensabile «gestire il conflitto», come ci siamo illusi di poter fare. È tempo di risolverlo, rilanciando la soluzione dei due Stati. Come chiedono, giustamente, gli Stati Uniti e l’Unione Europea. E come vogliono i vicini arabi. Ritornare a un negoziato che consenta la nascita di una Palestina indipendente creerebbe le basi per la formazione di una vasta coalizione tra Israele e le potenze sunnite, isolando Teheran. I due Stati non sono solo la miglior garanzia di sicurezza per gli israeliani bensì per l’intera regione. Perché questo accada, però, per prima cosa, si devono liberare gli ostaggi. In caso contrario, Hamas avrà raggiunto l’obiettivo perseguito con l’attacco del 7 ottobre: uccidere non solo più civili possibile ma uccidere la possibilità di una riconciliazione tra israeliani e palestinesi. Oltre a indebolire il presidente Abu Mazen e porsi come referente unico della causa palestinese. Non possiamo permetterlo.

Che cosa può fare la società israeliana per spingere il governo a un accordo di rilascio dei sequestrati?

Non so cos’altro potrebbe fare di più di quel che ha già fatto. All’estero, spesso, c’è l’errata convinzione che il Paese approvi la strategia dell’attuale governo. Posso dire che più della metà dei cittadini è contrario e l’ha dimostrato con le proteste di massa. Purtroppo l’esecutivo tira dritto. È molto frustrante. Ma oggi saremo di nuovo in piazza.

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