Da giorni le forze del generale Khalifa Haftar – ostile al governo nazionale del premier Sarraj, nel quale non è stato trovato un ruolo “adeguato” alle sue ambizioni – marciano su Sirte da Est. Da giorni le forze di Misurata – che, senza troppa convinzione, appoggiano il governo Sarraj, non tanto per sostenere il cammino della normalizzazione, quanto per contrastare Haftar – marciano su Sirte da Ovest. A Sirte ci sono circa 5.000 combattenti del Daesh (tunisini, sudanesi, yemeniti e sudanesi). Ma il “feudo” del cosiddetto Califfato libico sta risentendo di una grave crisi: la paccottiglia jihadista non ha mai attecchito sul substrato libico, controllato da fazioni islamiche molto gelose del loro passato e strettamente connesse all’ossatura tribale del Paese. Così, paradossalmente, il Daesh in Libia finisce per ridursi a “pretesto”, a terreno dello “scontro finale” tra Haftar e Sarraj. Il generale – forte degli armamenti generosamente forniti da Egitto ed Emirati Arabi Uniti e arrivati nelle scorse settimane a Tobruk, in Cirenaica – ha lanciato la sua offensiva su Sirte. Una marcia lenta, lentissima, che denuncia, in fondo, la volontà di trattare: combattere il Daesh è il modo con cui Haftar dice al mondo: ci sono, sono forte e mi spetta un ruolo nel governo centrale. Sarraj non è nelle possibilità di concedere. Settimana scorsa ha chiesto lo stop dell’avanzata su Sirte, proponendo che le forze di Haftar e quelle di Misurata si coordinassero, prima, in un «comando unificato», per vincere, insieme, contro il nemico jihadista. Ieri, però, i primi scontri, a sud di Sirte, fra le truppe di Misurata e quelle di Haftar. Si parla di quattro morti. Un segnale pessimo, perché indica il fallimento di una “trattativa” che, pure se condotta in mondo tutto libico, andava avanti. E che, invece, sembra ora sfuggendo di mano agli stessi protagonisti che l’hanno intavolata. Con il rischio che si riaccendano le tensioni, riesploda la guerra civile. (
B.U.)