Il premier ungherese Viktor Orbán al Parlamento europeo a Bruxelles (Ansa)
Dalla piazzetta di Vértanúk tere Imre Nagy non guarda più verso il Parlamento di Budapest. Per oltre due decenni la statua del leader della rivolta del ’56, brutalmente repressa dall’esercito sovietico, ha osservato da vicino l’evoluzione della democrazia ungherese. Ma il tempo della memoria e degli eroi del passato, nell’Ungheria di Viktor Orbán, sembra essere finito. O quanto meno cambiato. Nagy è stato bollato dal premier come uno dei «comunisti peggiori». Al suo posto, in questo triangolo verde dove gli operai sono incessantemente al lavoro, a ridosso delle elezioni europee del prossimo 26 maggio verrà collocato un monumento consacrato alle vittime del “terrore rosso” del 1919. Un cambiamento che, secondo i critici, rientra nella lotta identitaria del governo Orbán contro i valori del liberalismo e della sinistra ungherese.
Róza Hodosán, sociologa, storica attivista per la democrazia ed ex parlamentare liberal, è preoccupata. «La rimozione della statua di Nagy per ragioni ideologiche è solo l’ultimo passo – osserva –. Il governo di Orbán si proclama anticomunista, ma sta solo falsificando la storia per interessi di potere, mentre si comporta da cavallo di Troia di Vladimir Putin nell’Unione Europea». L’opposizione parla di «autoritarismo» del premier, portando ad esempio le riforme restrittive nell’ambito della giustizia, le nuove leggi sul lavoro definite “leggi schiavitù”, la quasi totale scomparsa di media indipendenti. Secondo Hodosán, «la propaganda del governo si traduce in un incitamento all’odio contro l’Unione Europea, i gruppi etnici e i profughi. Già in passato l’Ungheria ha sofferto molto a causa di questo genere di leader politici. Il governo sta causando ferite molto profonde nella società ungherese».
Al potere dal 2010, il partito di Orbán, Fidesz, ha riconquistato una “supermaggioranza” in Parlamento alle politiche dello scorso anno. A marzo la sua campagna contro Jean-Claude Juncker e, in generale, le istituzioni Ue ha portato allo scontro interno con il Partito popolare europeo di cui Fidesz fa parte, scontro per ora risolto con il compromesso di una “sospensione concordata”. «Il Ppe ha perso terreno, si è spostato troppo a sinistra: dovrebbe difendere di più valori tradizionali cristiani ed europei e ascoltare la gente»: Balázs Hidvéghi, già deputato e membro di Fidesz da 30 anni, oggi è il numero uno della comunicazione del partito, membro della ristretta cerchia di Orbán. Ci riceve negli uffici parlamentari in Széchenyi rakpart. Dalla terrazza la vista sul Danubio in una giornata piena di sole è impareggiabile. «Fidesz non accetta l’idea della sinistra liberal secondo cui l’immigrazione è inevitabile e solo positiva – attacca –. Crediamo che l’Europa non dovrebbe accogliere questo flusso costante, sarebbe una politica anti-europea che metterebbe in crisi il trattato di Schengen e distruggerebbe la sicurezza». E ancora: «Non stiamo chiudendo le porte ai veri profughi, ma ai migranti economici. Chi ha bisogno deve essere aiutato, ma nei Paesi di origine. Noi dobbiamo sostenere le nostre famiglie e la natalità».
Il tema del lavoro si è rivelato negli ultimi mesi il più incandescente, con le proteste di piazza contro l’innalzamento da 250 a 400 ore del monte annuo di straordinari e il loro pagamento a tre anni. In un Paese con la disoccupazione al 3,5% l’opposizione ha parlato di un favore agli investitori stranieri, soprattutto alle grandi aziende tedesche dell’auto, che in Ungheria hanno alcuni dei loro principali impianti produttivi. György Károly è segretario internazionale della Confederazione dei sindacati ungheresi. «Nell’ultimo paio di anni – sottolinea – abbiamo assistito ad una politica sociale che non è al servizio della gran parte della popolazione, ma soprattutto delle classi sociali agiate. La politica economica del governo è fondata su manodopera sempre più a buon mercato, mercato liberista flessibile, aiuti agli investitori stranieri e al capitale e respingimento degli interessi dei lavoratori. Servono stipendi decenti e un sistema più equo».
Quella ungherese è nell’Ue l’economia che, in rapporto alla dimensione, ha beneficiato maggiormente dei fondi comunitari: 34,3 miliardi di euro tra il 2014 e il 2020. Eppure, a fronte di un Pil che cresce del 4,9%, tanti sotto-occupati guadagnano 300 euro al mese, metà dello stipendio medio, mentre dal 2010 sono decine di migliaia ogni anno gli ungheresi trasferitisi all’estero in cerca di lavoro. Secondo Károly le elezioni Ue saranno un’occasione per «parlare di che tipo di Europa e di Ungheria vogliamo». «Noi sindacati– evidenzia – vogliamo una società inclusiva, un’economia grazie alla quale lavorando 8 ore al giorno la gente non soffra la fame e non consenta che siano a rischio povertà 4,6 milioni di persone, quasi metà della popolazione. È un dato scioccante».
Nel sole tiepido del pomeriggio percorriamo Baross utca con i suoi tavolini all’aperto e la birra che scorre, l’aria resa elettrica dagli universitari in libera uscita. Non troppo distante, davanti all’Accademia delle scienze, un’istituzione che rende orgogliosa la cultura ungherese da oltre 200 anni, un migliaio di studenti agita cartelli inneggianti all’Unione Europea. Uno recita: «Pensare non fa male alla salute». È già la seconda volta che manifestano: ce l’hanno con la riforma governativa che intende, tra l’altro, separare l’insegnamento dalla ricerca, all’interno di un progetto che, dicono, è una minaccia alla libertà accademica. A dare manforte anche alcuni studenti della Central European University (Ceu), l’ateneo sostenuto da George Soros – obiettivo numero uno della propaganda di Fidesz – che la nuova legge sulle università straniere sta “forzando” al trasferimento da Budapest a Vienna. «La Ceu – spiega Petra Bárd, che nell’ateneo insegna Diritto costituzionale europeo – è attaccata in quanto simbolo. L’authority ungherese dell’educazione potrebbe sospendere la sua licenza in ogni momento».
Nel quartiere ebraico, a ridosso della più grande sinagoga d’Europa in Dohány utca, al Magveto Café si tiene una discussione sulle nuove startup politiche. A organizzarla è l’analista politico Csaba Tóth, direttore del think tank Republikon. Tóth sottolinea «l’enorme disparità di risorse tra Fidesz e l’opposizione, soldi che arrivano da fondi pubblici ma anche da aziende sostenitrici del governo». Eppure, obiettiamo, se il problema fossero i soldi, Soros potrebbe facilmente finanziare un partito di opposizione. «Sì, ma non lo fa, checché ne dica Fidesz. Inoltre all’opposizione mancano una leadership competente e una strategia, anche se bisogna ammettere che l’ambiente politico qui è più complicato, a partire dall’accesso ai media e dagli attacchi dei media pro-governativi».
L’opposizione, dalla destra di Jobbik ai Verdi ai tanti partiti centristi e liberali, dopo mesi di discussione su una lista unica si presenterà alle europee divisa. Secondo Tóth «l’energia delle manifestazioni per il lavoro degli scorsi mesi non è stata canalizzata in un nuovo movimento anche se prima o poi potrebbe accadere. Non sappiamo peraltro come Fidesz reagirebbe ad una situazione in cui, attraverso una libera elezione, potrebbe perdere la maggioranza. Come cittadino, però, sono certo che ci saranno in futuro nuovi spazi di libertà». Su Budapest cala una sera carica di aspettative. Ma l’Europa, vista da qui, appare ancora un modello troppo differente e lontano.
(1. Continua)