martedì 22 giugno 2021
Il Paese ha paura ma nutre profonda sfiducia nelle campagne di immunizzazione. E si affida a un elenco di regole lungo 68 pagine, che non prevede però certificato di vaccinazione per chi arriva
Una piattaforma galleggiante con  i Cerchi Olimpici davanti al Rainbow Bridge, il ponte sospeso che attraversa la Baia di Tokyo

Una piattaforma galleggiante con i Cerchi Olimpici davanti al Rainbow Bridge, il ponte sospeso che attraversa la Baia di Tokyo - Reuters

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Un mese esatto ai Giochi. Strani, inediti, incerti, dispari pur essendo ancora targati 2020. Dopo il rinvio di un anno fa, Tokyo non ha rinunciato. Non poteva, per non sopportare un tracollo economico più forte ancora di quello che già dovrà digerire. Ma non ha voglia. Ha paura del contagio, trema, chiede chiaramente al mondo di stare a casa, ha chiuso definitivamente gli stadi al pubblico straniero, e fissa regole durissime per chi comunque dovrà esserci, 15.400 atleti e 93.000 persone in tutto tra tecnici, dirigenti, personalità, sponsor, volontari e rappresentanti dell’informazione. Norme che sarebbero pure sopportabili e giustificate dalla pandemia che da quelle parti ha rallentato poco, ma che si scontrano con la realtà di un Paese fondamentalmente “no vax”, che tra mille accortezze non ha previsto la più logica, quella del vaccino obbligatorio.
Una profonda sfiducia, quella dei giapponesi nei confronti degli antidoti – soprattutto se fabbricati da aziende straniere – che arriva da lontano. L’ultimo episodio risale ai primi anni ’90, quando si registrarono alcuni casi di meningite asettica dopo la somministrazione di un farmaco combinato contro morbillo, parotite e rosolia. Così oggi solo il 5% circa dei giapponesi – ma secondo altre fonti siamo poco sopra il 3% – è stato vaccinato, e solo con Pfizer e Moderna, frutto di una campagna iniziata a rilento e di sondaggi non ufficiali secondo i quali più del 50% delle popolazione rifiuterà l’iniezione. Nessun piano invece per AstraZeneca, con 1,24 milioni di dosi inutilizzate donate dal governo a Taiwan, 1 milione al Vietnam e un’enorme quantità di dosi promesse al programma Covax delle Nazioni Uniti per i Paesi a basso reddito.


Come immediata e incomprensibile conseguenza, nelle 68 pagine del Playbook, il manuale che fissa le regole fuori campo di quello che non è più un gioco, la vaccinazione non è richiesta. Ma chiunque entrerà in Giappone per le Olimpiadi a partire dal 1 luglio (i Giochi inizieranno ufficialmente il 23) dovrà esibire un doppio tampone negativo, effettuarne uno appena sbarcato, accettare di far monitorare 24 ore su 24 la propria posizione tramite GPS o sottoporsi a tre giorni di quarantena, scaricare diverse app, firmare un impegno a seguire le regole, comunicare ogni giorno la propria temperatura corporea, mantenere il distanziamento fisico, evitare del tutto ristoranti, taxi e mezzi pubblici per i primi 14 giorni e tenere informati gli organizzatori dei propri spostamenti dopo aver comunicato con un mese di anticipo quali eventi si intende seguire e con quali motivazioni.

«Ci aspettiamo che tutti si adeguino. Ma dobbiamo anche essere consapevoli che potrebbero esserci infrazioni», dice il direttore delle operazioni dei Giochi, Pierre Ducrey. «Per chi non rispetta le norme ci saranno sanzioni», che andranno da un semplice avvertimento alla multa, fino alla squalifica temporanea o definitiva dalle Olimpiadi. Il Cio ha anche sottolineato che il governo giapponese ha il potere di espulsione dal Paese.
I Giochi insomma si ammanettano ai Cinque Cerchi. Erano global, ora saranno local. Impianti aperti al massimo a 10mila spettatori (e non oltre il 50% della capienza), tutti rinchiusi in una bolla, atleti compresi, soprattutto loro. Prigionieri, anzi sottoposti a un trattamento di “isolation facility”, che in inglese suona meglio. Vietato uscire dal Villaggio Olimpico, vietato frequentare locali, vietati i contatti con chiunque. Solo gare, almeno quelle, ma in quale atmosfera è facile prevederlo. E al primo sintomo di Covid, reclusione immediata in un hotel da 300 posti già pronto al peggio. L’Olimpiade della pandemia ha un prezzo, ed è molto alto.

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