Successo mondiale. Squid Game presentato al centro culturale coreano ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti - Reuters
A giugno aveva inveito contro il K-pop, il pop in salsa sudcoreana che sta invadendo senza tregua da Seul i mercati asiatici della musica, bollandolo come un «cancro vizioso che corrompe i ragazzi». Ora è la volta di “Squid Game”, la (controversa) serie tv targata Netflix, specchio nel quale si rifletterebbe la «natura bestiale della società capitalistica sudcoreana» e nella quale «la corruzione e i furfanti immorali sono all’ordine del giorno». Il leader nordcoreano Kim Jong-un accende i motori della propaganda per colpire, attraverso il sito Arirang Meari, l’influenza “nefasta” di Seul. Una “infezione” tanto più pericolosa per il regime nordcoreano perché capace di scavalcare agilmente i confini fisici che separano le due Coree.
Pyongyang è categorica: la serie – nella quale nel tentativo di vincere 45,6 miliardi di won (38 milioni di dollari) un pugno di concorrenti si impegna in una serie di “giochi mortali” – riflette «una società iniqua dove il forte sfrutta il debole» e «dove l’umanità è alienata dalla competizione portata all’estremo »: una sorta di buco nero nel quale si addensa una folla di «perdenti in forte concorrenza per occupazione, proprietà immobiliari e azioni aumenta drammaticamente ». Insomma il Sud “sporco e cattivo”, da contrapporre all’incorrotto Nord.
Ma non basta. A infastidire il Nord sono anche le dimensioni planetarie del successo di “Squid Game”. Secondo il quotidiano sudcoreano “ The Korea Times”, il «dramma distopico», scritto e diretto da Hwang Dong-hyuk, «ha scalato le classifiche di Netflix in più di 80 Paesi» e vanta una platea di «111 milioni di spettatori nei primi 28 giorni di programmazione. Ma perché Kim Jong-un teme tanto l’invasione di Seul e dei suoi prodotti culturali, puntando il dito perfino contro lo slang del Sud? Per Tae Yong-ho, il primo disertore nordcoreano ad essere eletto nel Parlamento sudcoreano, citato dall’agenzia Reuters, il motivo è semplice.
L’influenza di Seul è debordante. «Di giorno, la popolazione nordcoreana grida “lunga vita a Kim Jong-un”, ma di notte tutti guardano drammi e film sudcoreani». Un’ubriacatura che rischia di distrarre i giovani «dalla gloriosa rivoluzione socialista». Tanto che il quotidiano nordcoreano Rodong Sinmun ha, in passato, denunciato il rischio sovversione veicolato dalla mode del Sud: «La penetrazione ideologica e culturale sotto l’insegna colorata della borghesia è ancora più pericolosa dei nemici che prendono le armi». Una serie di richiami che però non hanno avuto successo, non modificando di fatto le abitudini e i consumi dei nordcoreani.
Secondo il quotidiano sudcoreano “ The Korea Times” il 44% della popolazione nordcoreana consuma con frequenza programma tv, film e canzoni sudcoreane, mentre il 40,% dice che ha ascoltato o visto solo una o due volte. Solo il 18,2% non ha mai avuto accesso alla produzione del Sud.
Una “deriva” a cui il dittatore di Pyongyang Kim Jong- un ha opposto la “Legge per l’eliminazione del pensiero e della cultura reazionari”, una raffica di pene severe contro chi “consuma” prodotti culturali provenienti dalla Corea del Sud: dalla detenzione per quindici anni al carcere duro all’interno dei campi di lavoro fino alla pena di morte.