Un ragazzo che gioca a calcio nel centro di Izyum - Gambassi
Quando le temperature non sono così rigide o il cielo non annuncia pioggia, l’appuntamento è alle due del pomeriggio nel Parco della cultura e della ricreazione, denominazione che più russa non potrebbe essere, anche se i cartelli che lo indicano sono in ucraino. Andriy si presenta con il pallone vicino ai due chioschi che sono ammassi di lamiere e brandelli di pareti in cartongesso. «Erano i nostri bar del “dopo gara”», racconta. Parla al plurale perché dopo una manciata di minuti arriveranno tre suoi amici. Hanno tredici anni. Compagni di classe. E di giochi. La partita comincia intorno alla fontana senz’acqua e alle statue in ghisa crivellate di colpi. Per un tiro fuori controllo di Andriy, il pallone finisce oltre la finestra della “Scuola 4”: non ha più vetri. E non sono soltanto quelli che mancano. Niente più tetto, abbattuto da una pioggia di razzi. Niente palestra, completamente rasa al suolo. Niente più aule che adesso sono solo cumuli di detriti e di banchi o sedie andate a fuoco.
La "Scuola 4" devastata da una pioggia di razzi nel centro di Izyum - Gambassi
«E dire che era la nostra scuola più antica, da cui è passato anche un pezzo di storia russa», sussurra la signora Luba, volto rigato dagli anni, che osserva Andriy mentre si immerge fra le mura accartocciate per riprendere il pallone. Indica una targa rimasta intatta sulla facciata, dove si legge: «Qui il 5 marzo 1917 si sono riuniti i lavoratori che hanno annunciato la fine del regime zarista e la liberazione dei prigionieri politici dalla prigione di Izyum». «E ora i fratelli russi l’hanno ridotta così», aggiunge Luba. Sì, li chiama “fratelli”, con un tono sarcastico che lascia trasparire orgoglio e rabbia al tempo stesso. «È stata anche la mia scuola», risponde Andriy.
La via principale di Izyum devastata dai combattimenti - Gambassi
Oggi non ne esistono di scuole aperte a Izyum, la città martire a metà strada fra Kharkiv e Donetsk, nell’Est dell’Ucraina, rimasta in mano all’esercito di Mosca fino a settembre. Un nome entrato nella geografia delle atrocità per la più grande fossa comune scoperta nel Paese. Era in un bosco, con oltre 450 corpi. Però non è l’unico lascito dell’occupazione. Tutto il centro è sfregiato, ridotto a scheletri di palazzi sventrati o crollati. Il ponte all’ingresso dell’agglomerato è stato fatto saltare in aria. Due dei palazzoni sovietici appena oltre il fiume sono squarciati a metà: quaranta i morti. E oggi su 50mila abitanti ne restano meno di 3.500. Eppure uno su dieci ha meno di quindici anni: 350 i ragazzini, secondo un censimento tutt’altro che ufficiale. «E da quando siamo stati liberati sono nati cinque piccoli», riferisce Natalia Kurbenko, una delle volontarie che ha trasformato il teatro cittadino in un “presidio di aiuti”. Sembra un paradosso che la città della devastazione e dell’orrore sia la città dei bambini. «Sono il più forte segno di speranza che sopravvive fra noi e che il nemico non è stato in grado di scacciare», prosegue Natalia. E spiega: «Giustamente in tanti sono fuggiti. Sa, quando in una città cadono duecento missili e diventa campo di battaglia, la si abbandona. Potevano andarsene anche tutte le famiglie che avevano i figli piccoli. Invece hanno resistito».
Il sottoscala dove ha vissuto una famiglia durante i mesi di occupazione russa - Gambassi
L’istituto di Andriy è uno di quelli che non esiste più. L’energia elettrica e l’acqua corrente sono tornate da meno di un mese. Ma vanno e vengono per i continui blackout causati dagli attacchi di Mosca. Per lui e per i coetanei è ripresa anche la scuola: solo online. «Ho anche qualche compagno che sta a Kiev; altri in Germania e Polonia. Ci colleghiamo per seguire le lezioni ma si fa fatica con la Rete ballerina», sorride. Si stima che a Izyum la metà degli studenti non riesca a proseguire gli studi. Mentre torna a casa, percorrendo via Soborna in cui non c’è edificio che non sia stato bombardato, Andriy mostra il condominio dove vive: è colpito in più punti.
Il sottoscala dove ha vissuto una famiglia durante i mesi di occupazione russa - Gambassi
Ma, prima di arrivarci, apre la porta di un sottoscala: quattro materassi, qualche mensola con i sottaceti ancora sistemati alla rinfusa, due sedie malridotte. «Con i miei abbiamo vissuto qui per sei mesi. Passavano anche gli aerei sopra di noi. Russi naturalmente. E sganciavano ordigni». La cucina era all’aperto. «Fra quei mattoni accanto ai gradini accendevamo il fuoco». Un sospiro. «È tutto passato. I nostri ci hanno liberati». Però gli occhi non sembrano dire la stessa cosa. E ogni giorno le vie sventrate di Izyum ricordano ai ragazzi rimasti che ci sarà bisogno di una ricostruzione non solo delle mura ma anche dell’anima.