Alice Kisiya affronta i coloni che hanno attacco la sua fattoria il 31 luglio - Kisiya
Quella del 30 luglio è stata l’ultima notte che Alice Kisiya ha dormito nel suo podere di el-Makhrur, alle porte di Betlemme. Il giorno successivo, un gruppo di coloni adolescenti s’è arrampicato fra gli uliveti della collina dichiarata patrimonio dell’Unesco. Ha raggiunto le tende in cui la trentenne e la sua famiglia vivevano accampati dal 2019, quando le autorità israeliane - sotto il cui controllo si trova la cosiddetta Area C della Cisgiordania – hanno demolito la casa e il ristorante che avevano ricostruito per quarta volta. Con pietre, coltelli e pistole hanno assalito i Kisiya. «Ho chiamato la polizia. Invece di aiutarci, dopo otto ore si è presentato l’esercito per consegnarci l’ordine di sfollamento». L’area è stata dichiarata “zona militare chiusa”.
Nessun civile è autorizzato a risiederci. E, in effetti, nel podere, c’è solo un uomo in divisa che rifiuta di parlare con Avvenire. «Peccato che si tratti di un colono. Con il grosso dell’esercito dispiegato a Gaza o in Libano, migliaia di riservisti degli insediamenti sono stati reclutati per garantire la sicurezza in Cisgiordania. Ma sono loro la causa principale della violenza», racconta Alice mentre il vento le scompiglia la massa di riccioli dorati sciolti sulle spalle. Sull’altro lato della valle, affacciato sulla fattoria, la ragazza, cattolica come il 91 per cento del popolo di El-Makhrur, ha creato uno spazio in cui, una volta al mese, attivisti nonviolenti ebrei, musulmani e cristiani, si riuniscono per la preghiera interreligiosa e la veglia di solidarietà. «Abbiamo il dovere di resistere. Non solo per noi. Come mia madre, palestinese di Gerusalemme, sono cittadina israeliana. E ho il passaporto francese. Il nostro caso, dunque, ha maggiore eco. Se riescono a cacciare noi, i coloni avranno mano libera per espellere le duecento famiglie di El-Makhrour. E si prenderanno tutta la valle».
La battaglia dei Kisiya va avanti dal 2012 quando, alle loro spalle, è spuntato un primo avamposto o outpost, il primo embrione di colonia. In contemporanea, il Jewish national fund ha iniziato la disputa legale per rivendicare la proprietà della terra. Con il conflitto, però, c’è stata l’accelerazione. Non solo, a dicembre, s’è aggiunto un secondo outpost. A giugno, il ministro Bezalel Smotrich, in risposta al riconoscimento della Palestina da parte di Spagna, Irlanda, Norvegia, Estonia e Armenia, ha autorizzato la realizzazione di un nuovo insediamento – Nahal Heletz – accanto alla terra dei Kisiya.
La vicenda riassume con drammatica puntualità un fenomeno ben più ampio, in atto da un decennio ma esploso in tutta la sua portata a partire dal 7 ottobre. La “nuova colonizzazione” della Cisgiordania, la chiamano. L’obiettivo è il medesimo perseguito da gruppi sionisti radicali, laici e religiosi, negli ultimi 57 anni: mettere la politica, nazionale e internazionale, di fronte al fatto compiuto in modo da impedire la nascita di uno Stato palestinese. I protagonisti sono, però, ora gli “avamposti agricoli”. Non più nuclei di future città densamente popolate bensì distese di campi o pascoli. A gestirli pochi pionieri, spesso una sola famiglia. «In questo modo – spiega Dror Etkes, attivista israeliano e fondatore di Kerem Navot, organizzazione specializzata nel monitoraggio degli insediamenti nei Territori – con un numero esigue di persone si riesce a controllare una superficie molto più ampia di terra». Esattamente due volte e mezzo maggiore, secondo i calcoli di Zeev Herver, storico rappresentante dei coloni. Perché la conquista del territorio sia effettiva, i fautori degli avamposti devono poter contare su braccia giovani che coltivino la terra e portino gli animali al pascolo. A fornirle sono una rete di una decina Ong – prime fra tutte Hashomer Yosh, oggetto di recenti sanzioni Usa, e Artzenu – che si occupano del recupero di ragazzi “difficili” attraverso programmi di lavoro volontario o quasi in campagna.
«Difficile dire il numero esatto. Le nostre stime variano da diverse centinaia ad alcune migliaia. In genere si tratta di adolescenti con difficoltà scolastiche o di comportamento. Alcuni sono solo un po’ turbolenti altri hanno disturbi più seri – racconta Dror Etzer –. Non sempre i genitori che si rivolgono a queste organizzazioni sono parte del movimento dei coloni. Spesso sono solo madri e padri disperati». I giovani volontari sono il motore della “nuova colonizzazione” che procede a marce forzate. Le novanta fattorie israeliane sparse per la Cisgiordania occupano quasi 658 chilometri quadrati, il 12 per cento del totale. Sessantacinque di queste – rivela Kerem Novot – sono state create negli ultimi sette anni. La gran parte è successiva all’attacco di Hamas ai kibbutz del sud. «Abbiamo documentato 43 nuovi avamposti da allora, in maggioranza fattorie o allevamenti – sottolinea Mauricio Lapchik, responsabile relazione esterne di Peace Now –. Una crescita esponenziale. Tra il 1996 e il 2023 la media era stata di sette all’anno. Il fatto è che ora hanno il pieno sostegno finanziario e politico del governo».
Nell’ultimo bilancio, approvato a maggio, l’esecutivo di ultradestra di Benjamin Netanyahu ha destinato l’equivalente di circa venti milioni di dollari agli outpost. «Si parla di progetti di sostegno all’agricoltura, stimolo alle piccole imprese rurali e altre forme soft. Di fatto, però, lo Stato coopera al furto di terre in Cisgiordania», aggiunge Lapchik. Affinché non ci fossero dubbi, Smotrich, la scorsa primavera, con una decisione inedita, ha concesso a 70 avamposti – illegali anche per la legge israeliana – la possibilità accedere ai finanziamenti pubblici. «I fondi statali diretti sono solo una parte del budget effettivamente destinato. Altro viene canalizzato attraverso i vari ministeri, consigli regionali, le Ong “amiche” in denaro o in forma di realizzazione di infrastrutture, educazione, sicurezza. Abbiamo calcolato che un quarto della spesa totale del 2023 è andata agli insediamenti anche se i suoi abitanti sono il 5 per cento della popolazione».
Anche i fondi ai programmi per i ragazzi a rischio delle Ong pro-insediamenti – menzionati nei loro stessi siti - rientrano nel meccanismo. «Il lavoro negli avamposti – che ricevono sussidi per ospitarli – viene presentata come un’opportunità di reinserimento sociale. In realtà, è funzionale all’espansione delle colonie». L’avanzata degli avamposti è particolarmente rapida nella fascia tra Ramallah e Gerico, nel sud di Betlemme e nelle colline di Hebron dove gli avamposti tagliano i collegamenti tra i villaggi palestinesi, circondandoli. «Impediscono agli abitanti di coltivare le terre, pascolare gli animali, spostarsi con attacchi continui per costringerli ad andare via. Dal 7 ottobre, venti comunità – cioè oltre 250 famiglie – sono state espulse. Anche in questo caso si tratta di numeri inediti – prosegue Lapchik –. Il fatto è che i coloni non erano mai stati così aggressivi. L’Onu ha registrato 1.300 attacchi nell’arco di dodici mesi».
A metterli in atto, in genere, sono proprio i coloni-adolescenti, che fungono anche da squadre d’assalto. Tanto che Michal Shamai, sociologa dell’Università di Haifa, li ha paragonati ai «bambini soldato», carne da cannone a buon mercato della lotta corpo a corpo per la Cisgiordania. Avvenire ha contattato Yashomer Yosh e Artzenu per avere chiarimenti ma non ha avuto risposta. Anche Alice Kisiya prosegue la sua battaglia disarmata per il diritto a tornare a el-Makhrur. «Sono consapevole che la resistenza nonviolenta è più difficile – conclude la giovane dall’altopiano di fronte alla sua fattoria –. Richiede tempo e pazienza. Sono tutto ciò che mi è rimasto