Oren Baden, padre di tre figli, si è offerto come volontario nell'esercito ed è stato assegnato alla protezione degli asili - Archivio
«Sono passato dall’insegnare all’università a proteggere i nostri bambini fuori dall’asilo», racconta Oren Bader, padre di tre figli, docente di Filosofia della mente all’Università di Tel Aviv. Indossa, come tutti i riservisti impiegati nella difesa del Paese, divisa e fucile. E all’uscita dell’asilo, da quando è ricominciata la scuola, i bimbi lo salutano e lo ringraziano con affetto: «Ciao Oren, Shabbat Shalom». Le università, invece, non hanno ancora incominciato il loro anno accademico.
Dal 7 ottobre, il ministero dell’Istruzione ha già posticipato due volte l’inizio delle lezioni, ora previsto, nelle migliori delle ipotesi, per il 24 dicembre. Negli atenei mancano sia studenti che professori impegnati nel conflitto. Anche Bader doveva essere tra loro, ma ha trascorso molti anni all’estero – all’Università di Heidelberg, in Germania – non ha potuto addestrarsi più volte l’anno, come richiesto ai riservisti.
E ora ha superato i 41 anni – limite entro il quale non è più necessario aderire al servizio di riserva, altrimenti obbligatorio – ma non potendo insegnare voleva comunque contribuire alla difesa. Si è offerto volontario e l’esercito gli ha proposto di fare da guardia armata a un asilo pubblico di Tel Aviv. «Faccio quello che posso per garantire l’istruzione», racconta il professore. Spiega che fin dal 7 ottobre molti suoi colleghi, studiosi che ha conosciuto durante i convegni in tutto il mondo, si sono stretti a lui dimostrando come l’internazionalizzazione della ricerca sia un circolo virtuoso non solo per l’innovazione, ma anche per fare da ponte tra culture. «Quelli con cui ho lavorato all’estero in passato, sono anche coloro che hanno visitato e collaborato con le nostre università. Chi è stato in Israele, e ne ha sperimentato la grande ricchezza, sul piano sia scientifico che culturale, capisce che boicottare l’accademia è il peggior modo per isolarci e non stimolare il dialogo, necessario, per portare avanti il processo di pace».
Glissa sulle polemiche di questi giorni nelle accademie all’estero. E spiega il motivo della sua decisione di non lasciare Israele, soprattutto in un momento così difficile: «Fin dall’inizio del conflitto ho ricevuto telefonate e messaggi da colleghi che, da ogni dove, mi offrivano ospitalità a casa loro. Potrei partire quando voglio. Ma il mio posto ora è qua. Nonostante l’ultimo anno, a causa della delicata situazione politica dovuta alla promulgazione della riforma giudiziaria promossa da un governo estremista, avessi pensato più volte di trasferirmi, con tutta la famiglia, all’estero, oggi più che mai sento che il nostro dovere è quello di restare qua e restare uniti». Perché, conclude, «appena questa guerra finirà, tutti assieme, dovremo ricostruire Israele. Non solo i suoi kibbutz, distrutti dal massacro di Hamas, ma anche le fondamenta del Paese. A partire proprio dalla cultura».