Sanitari con la tuta bianca tra le viuzze di Villa Azul nella provincia di Buenos Aires in Argentina - Ansa
«Complicata». Lo ripete più e più volte padre Guillermo Torres della parrocchia di Cristo Obrero nella Villa 31, affollato agglomerato di casupole precarie nel cuore di Buenos Aires. La situazione è drammatica. La baraccopoli – o villa, come la chiamano gli argentini – è quella con il maggior numero di malati di Covid: 1.890 su 45mila abitanti e nove morti. «Il contagio è cresciuto esponenzialmente da metà aprile. Nell’ultima settimana c’erano oltre 80 infettati al giorno. Ieri c’è stato il primo calo a 45. Speriamo che sia l’inizio della fine», racconta il sacerdote. A Villa Azul, nella sterminata cintura urbana della capitale, l’incremento è stato ancora più repentino. In cinque giorni, i contagi sono passati da 0 a 196 su 5mila residenti. Tanto che le autorità hanno deciso di isolare l’insediamento informale per quindici giorni. Una misura estrema motivata dal timore che il virus si propagasse a Villa Itaití, da cui la divide una lingua d’asfalto costruita durante l’ultima dittatura militare. Fino ad allora, erano un’unica, gigantesca baraccopoli. Ora Azul è una propaggine di Itaití, dove vivono oltre 70mila persone. Il cordone sanitario imposto, con tanto di presidio militare, ha provocato forte impatto nell’opinione pubblica. Catapultando sulla ribalta mediatica un fenomeno a lungo invisibile: la diseguale distribuzione dei contagi a Buenos Aires e nel resto delle metropoli latinoamericane. Nella capitale argentina e attigui municipi-dormitorio – dove c’è l’80 per cento degli oltre 13mila casi nazionali –, il 40 per cento dei malati si concentra nelle villas dove risiede tra l’8 e il 9 per cento della popolazione.
«La pandemia ci costringe a prendere atto delle carenze che affliggono la vita degli abitanti degli insediamenti informali e li rendono più fragili di fronte all’emergenza. Chi risiede in un quartiere dove l’acqua corrente arriva a singhiozzo, come può seguire il consiglio di lavarsi le mani?», racconta monsignor Gustavo Carrara, vescovo ausiliare di Buenos Aires e villero, dato che ha scelto di vivere nella baraccopoli di Bajo Flores, la seconda per contagi – circa un migliaio e 14 vittime – dopo la Villa 31. Alle carenze idriche si sommano il sovraffollamento, l’impossibilità di restare a casa dati gli spazi angusti e la necessità ineludibile di lavorare. La gran parte degli abitanti delle baraccopoli sopravvive dall’economia informale. Sono lustrascarpe, venditori ambulanti, domestici e muratori in nero, pagati a giornata. Oltretutto per spostarsi sono costretti ad utilizzare i mezzi pubblici, perennemente stracolmi. Un mix esplosivo in tempo di Covid. Che spiega perché in America Latina il coronavirus sia una “malattia dei poveri”. Mentre in Europa ha colpito in prevalenza gli anziani, nel Continente più diseguale del pianeta, il discrimine è la condizione sociale, non tanto quella anagrafica, come dimostra il fatto che in Brasile il 31 per cento dei morti ha meno di 60 anni. Arrivato con i viaggiatori di classe media alta, a tre mesi dalla scoperta del primo caso, il Covid s’è spostato, in termini di contagio e mortalità, sui settori popolari urbani e, in particolare, su quanti vivono negli insediamenti informali, cioè un quinto dei latinoamericani. Mentre l’Africa, pur con tutte le cautele del caso, sembra aver resistito, la regione tra Rio Bravo e Terra del Fuoco è diventata l’epicentro mondiale della pandemia con oltre 833mila casi e quasi 45mila decessi, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). In realtà, lo sono le sue baraccopoli.
«Il 45 per cento degli ottomila positivi di Bogotà risiede negli agglomerati di Kennedy, Susa e Bosa, i più poveri, che sono anche la gran parte dei morti. L’accesso alle cure riflette la diseguaglianza», afferma John Orlando, responsabile in Colombia di Azione contro la fame. E sono sempre i quartieri popolari quelli che stanno pagando il prezzo più alto. «In quasi tutte le casupole, spicca un drappo rosso. Un modo, nato dalla fantasia popolare, con cui le persone chiedono aiuto alimentare», ribadisce Orlando. Il linguaggio dei colori è diffuso in tutte le baraccopoli latine. In Salvador e Guatemala, ad esempio, la bandiera rossa significa mancanza di medicine mentre quella bianca di cibo. E proprio sventolando un drappo bianco, i residenti infrangono la quarantena per andare a rovistare nei rifiuti a caccia di qualcosa da mangiare. In Brasile, in cima alla classifica latinoamericana con 411mila casi e più di 25mila morti, le favelas di Rioaffrontano la crisi da sole, in mezzo al caos istituzionale. I residenti si sono auto-organizzati per distribuire aiuti ai più anziani e fare sensibilizzazione. Nel quartiere Cangallo di Lima, in Perù – secondo Paese dopo il Brasile – 475 persone su 656 sono risultate positive: tutti sono indigeni Shipibo espulsi dalle loro terre.