giovedì 30 aprile 2020
I medici e le attrezzature chiesti a Brasilia non sono arrivati, Arthur Neto si rivolge ai leader del G20: «Aiutate i popoli dell’Amazzonia». In Brasile oltre 5mila vittime, più che in Cina
Partecipanti a un funerale collettivo al cimitero di Manaus, nell'Amazzonia brasiliana, il 28 aprile

Partecipanti a un funerale collettivo al cimitero di Manaus, nell'Amazzonia brasiliana, il 28 aprile - Reuters

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«Abbiamo urgenza. Un’urgenza che aumenta con la stessa celerità con cui si propaga il coronavirus. Non possiamo continuare ad attendere un aiuto che non arriva. Mi sento abbandonato. Per questo, chiedo, con umiltà, al mondo di rivolgere lo sguardo verso lo Stato dell’Amazonas, verso l’Amazzonia, verso i popoli della foresta». Parla veloce Arthur Virgilio Neto, sindaco di Manaus, principale metropoli amazzonica nel nord del Brasile, con un tono che tradisce preoccupazione e stanchezza. Chiuso in casa per la quarantena, da undici giorni trascorre il tempo al telefono.

Con Brasilia e con la stampa internazionale affinché prendano atto della tragedia che dilania la città di 2,2 milioni di abitanti, ammassati per i due terzi in sterminate favelas. Tra loro anche 40mila indigeni. L’allarme è scattato il 19 aprile quando al cimitero Nossa Senhora Aparecida sono state sepolte 122 persone: un incremento repentino rispetto alle trenta, in media, dei tre mesi precedenti. Di queste, ufficialmente, solo 6 erano morte per Covid-19, le altre per generiche infezioni respiratorie o cause sconosciute. Da allora, però, i seppellimenti quotidiani non sono mai stati meno di cento. Domenica c’è stato il record di 142. Martedì – ultimo aggiornamento del registro – erano 118. «Per far fronte alla mancanza di spazio, il Comune ha fatto scavare un sistema di trincee in cui vengono messi i feretri, ciascuno, però, ben identificato. Ma non mi rassegno a seppellire i morti, a guardare i parenti piangere, sapendo che tanti, forse, si potevano salvare con più assistenza. La priorità ora è fermare la strage», spiega il primo cittadino ad Avvenire. Per questo, la settimana scorsa, Neto ha avuto un colloquio – virtuale – con il vicepresidente, Hamilton Mourão a cui ha chiesto di inviare medici e respiratori, e di trasformare i presidi sanitari di base in centri diagnostici per il Covid.

«Finora non abbiamo ricevuto niente, nemmeno i test rapidi. Gli ospedali sono saturi, la gente muore in casa, senza cure. Per conto nostro, grazie al sostegno di alcuni privati, abbiamo allestito una clinica da campo, con 39 posti in terapia intensiva, in una scuola che doveva essere inaugurata a breve. Il municipio ha anche assunto per sei mesi 400 operatori sanitari e creato 12 punti diagnostici». Ma non è sufficiente. Da sola, Manaus non ce la fa. «Supplico, dunque, il G20 di aiutarci. I popoli amazzonici, da sempre, custodiscono la foresta per tutta l’umanità. Quest’ultima non può restare indifferente di fronte al loro sterminio. Per favore, aiutateci con medici, ventilatori, risorse». Medici senza frontiere (Msf) ha raccolto il grido avviando un intervento sul posto soprattutto rivolto a indigeni, migranti e senza dimora. «Siamo molto preoccupati», afferma la responsabile dell’emergenza in Brasile, Silvia Dallatomasina. Sabato, papa Francesco ha telefonato all’arcivescovo di Manaus, Leonardo Ulrich Steiner per esprimergli sollecitudine e vicinanza. Nel frattempo, Brasilia glissa. Alle carenze storiche del Nord del Paese, si è sommata la riforma costituzionale del 2016 che ha congelato la spesa pubblica – a partire dalla sanità – per 20 anni. «Ora l’epidemia ne ha amplificato gli effetti negativi», ha tuonato ieri il relatore speciale Onu, Philip Ashton. Lo scarso investimento per la salute dei popoli amazzonici, in realtà, riguarda tutte le nove nazioni della regione. Nella colombiana Leticia, al confine col Brasile, e nella peruviana Ferreñafe, i pochi medici presenti si sono rifiutati di curare i malati di Covid per mancanza di protezione. A complicare ulteriormente il nodo brasiliano, il negazionismo di Bolsonaro. «Non è una questine politica. Voglio solo salvare la vita della mia gente – conclude il sindaco –. Il presidente sbaglia a dire alle persone di uscire. L’isolamento sociale è fondamentale e Bolsonaro dovrebbe essere il primo a dare l’esempio».

Con oltre 5mila morti e 70mila contagiati, il Paese ha superato la Cina per numero di vittime. E lo stesso Nelson Teich, che ha rimpiazzato come ministro della Salute, Luiz Mandetta, favorevole alla quarantena, ha ammesso: «La situazione sta peggiorando». Bolsonaro, però, minimizza. Di fronte all’impennata dei decessi, ha sbottato: «E quindi? Mi dispiace, ma cosa volete che faccia? Il mio secondo nome è Messia ma non faccio miracoli».

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