Per chi vota una donna? Non per una donna, s’è letto e ripetuto negli ultimi giorni dopo l’esito del voto americano, provando a interpretare le ragioni del fallimento di Kamala Harris (dopo quello di Hillary Clinton) a partire dalla sua storia personale, da un profilo forse troppo elitario per poter risultare vicino alle masse di donne “normali” chiamate ai seggi, da un modello di leadership troppo influenzato da quello maschile e maschilizzato di Trump.
Come se le donne – esercitando il loro diritto al voto per un banale principio di genere, o di somiglianza, o d’empatia – dovessero votare necessariamente per le donne, e di conseguenza come se le candidate dovessero incarnare un modello femminile che compiaccia le donne per farsi largo in politica, sfondando così i famosi tetti di cristallo. Il ragionamento, già di per sé riduttivo, in alcuni casi ha portato con sé addirittura una colpevolizzazione: sarebbe dipeso dalle donne, in buona sostanza, se Harris non ha battuto Trump, colpa della loro arrendevolezza, del non sodalizzare con la “sorella d’America”, del loro farsi soverchiare dagli uomini e lasciare campo libero a questi ultimi dalle case fino ai seggi. Che smacco, non aver risposto alla “chiamata alle armi” lanciata da Julia Roberts e Taylor Swift (note ai più non certo per le loro battaglie nel campo delle politiche femminili o dei diritti delle donne), che tradimento, per giunta a favore di un candidato che proprio del machismo ha fatto spesso la cifra della sua campagna elettorale.
Le cose, a ben vedere, non vanno molto diversamente di qua dall’Oceano: in occasione delle recenti elezioni europee sulle pagine di Avvenire ci siamo occupati, per esempio, dei flussi del voto femminile e di come le donne si fossero comportate rispetto alle candidature nostrane di Giorgia Meloni ed Elly Schlein. Niente da fare: anche da noi le donne non hanno votato per le donne, in nessuno dei due casi, o almeno non in una percentuale rilevante. Peggio, in sei su dieci ai seggi non ci sono nemmeno andate, segno che il problema del “per chi votare” non hanno nemmeno sentito l’esigenza di porselo, nonostante la presenza di due leader donne.
E questo spinge ad allontanarci dalla pista seguita fin qui: se il problema, cioè, non fosse affatto il “per chi”, ma il “per cosa”? Per cosa vota una donna? E cosa, le donne candidate a ruoli di leadership, mettono in campo per convincere in modo specifico le donne a votarle? Nel caso di Harris è presto detto: il diritto all’aborto. Per questo la candidata dem si era battuta (più o meno risolutamente a seconda di quel che le restituivano di volta in volta i sondaggi) e su questo secondo molti analisti s’è anche consumato il suo fallimento: un po’ perché il tema s’è poi spostato sugli esiti dei singoli referendum statali, molto perché – esattamente come avvenuto in Europa – il solo tema dei diritti riproduttivi non basta a compattare il consenso femminile.
Non basta nemmeno, d’altra parte, la chiusura totale rispetto al dialogo su quegli stessi diritti (tanto che lo stesso Trump ha dovuto rimodulare i toni accusatori e a tratti insopportabili utilizzati sull’argomento), o il solo sventolare ideologicamente il richiamo ai valori della famiglia tradizionale, ciò che contraddistingue in modo più marcato le forze conservatrici e di destra.
E allora, di nuovo, per che cosa? Per che cosa voterebbero le donne e non trovano candidate “conformi”? Per politiche che le interpellino con forza (e in questo senso, sì, di genere), vogliamo provare a suggerire qui: per una parità nei fatti che in nessuna parte del mondo le mette ancora allo stesso livello degli uomini sul piano educativo, lavorativo e salariale; per una partecipazione reale alle decisioni nella vita politica e sociale dei Paesi; per una lotta culturale senza se e senza ma alle violenze fisiche e psicologiche a cui sono sottoposte; per la conciliazione e il superamento del ruolo di care-givers che le inchioda (ancora e troppo spesso sole) alla responsabilità genitoriale e filiale.
Tutti punti che non sono stati e continuano a non essere tra le priorità esplicite di alcun programma di una leader donna: vengono sempre dopo, come se fossero accessori, surclassati dalla (pur sacrosanta per carità) attenzione all’economia e, in questi nostri tempi bui, alla difesa dei confini e alla questione dei migranti e a quella dei conflitti. Ambiti in cui le donne, però, continuando ad essere escluse finiscono conseguentemente anche per risultare più penalizzate: più povere degli uomini in contesti di povertà, più discriminate e sfruttate tra gli stranieri, più vulnerabili dove si combattono le guerre. Se è il voto delle donne che si vuole mobilitare, si dovrebbe avere il coraggio di farlo a cominciare dalla questione femminile nel suo complesso, mettendola in cima ai programmi e alle agende di governo. Chissà che le donne (e poi anche gli uomini) se ne accorgano.