Si sono rivolti persino ai preti. «Per favore dite in chiesa che bisogna evacuare», è stato il messaggio delle autorità locali. «E noi lo ripetiamo da settimane nelle liturgie: lasciate la città, non è più sicura», racconta padre Petro che con padre Giuseppe fa servizio nell’unica parrocchia greco-cattolica di Kramatorsk. La chiesa in legno, con la cupola e i tetti verdi, non compare più su Google Map. «È diventata un bersaglio dei russi da quando il parroco è finito nelle liste dei ricercati stilate da Mosca», spiega il vescovo ausiliare di Donetsk, Maksim Ryabukha. E per il sacerdote è scattato una sorta di protezione.
All’appello di padre Petro e padre Giuseppe la gente ha risposto. «Ormai la nostra comunità è tutta qui», dicono i due religiosi dell’Istituto del Verbo incarnato indicando i fedeli riuniti intorno all’altare. Tredici in totale, fra cui quattro suore della loro stessa congregazione e tre militari. Di fatto lo specchio di Kramatorsk oggi, l’ultima grande città della regione di Donetsk prima del fronte. Meno di quaranta chilometri la separano dalla battaglia di Bakhmut, diventa uno dei simboli “neri” della guerra in Ucraina. Ma è come se i combattimenti arrivassero fin qui, in mezzo alle strade, fra i condomini, dentro le poche fabbriche ancora aperte. Con i missili che cadono e l’eco sinistro dei colpi d’artiglieria che il silenzio spettrale delle vie deserte amplifica. Tanto da farne una città sospesa fra resistenza e abisso.
Strade deserte a Kramatorsk - Giacomo Gambassi
L’ipotesi è che i quartieri lungo il fiume Donec possano essere travolti dalla pioggia di fuoco che l’evoluzione degli scontri sul campo e poi la controffensiva ucraina si porteranno dietro. L’amministrazione comunale ha appena chiesto a tutte le scuole l’elenco degli alunni ancora presenti. «L’intento è convincere le famiglie a trasferirsi altrove», riferisce padre Petro. Nessuno sa quante persone siano rimaste. Erano in 300mila prima dell’invasione del Donbass nel 2014. Quindi 150mila nei sei mesi d’occupazione dei separatisti filorussi. «Con l’aggressione su vasta scala siamo scesi a 60amila la scorsa estate. Ma una parte degli sfollati è tornata, complice sia la difficoltà di vivere senza una casa, con gli affitti inarrivabili, lontano dalla propria terra; sia l’euforia per la riconquista dei territori che erano finiti in mano all’esercito di Mosca al confine fra la nostra oblast e quella di Kharkiv», dice il religioso. Poi l’inverno, la guerra di trincea, le bombe lanciate dalle postazioni appena oltre il confine che separa l’Ucraina libera da quella invasa: l’ultima ha devastato il cimitero. «Hanno preso di mira le scuole perché pensavano ci fossero i soldati», avverte padre Giuseppe. Ma anche palazzi, centri commerciali, la piazza centrale che – ironia della sorte – si chiama “piazza della pace”.
Il cratere di una bomba nella piazza centrale di Kramatorsk - Giacomo Gambassi
Sui marciapiedi i volti che compaiono sono dei soldati. Chi non indossa la mimetica si aggira come un fantasma fra i pochi negozi aperti e le macerie degli attacchi: donne per lo più, qualche uomo di mezza età e soprattutto anziani. Sono i sopravvissuti di Kramatorsk. Come Maria Tetarenko che ogni volta si fa quarantacinque minuti a piedi per pregare nella «mia chiesa», come chiama la parrocchia greco-cattolica. Deportata fin qui dall’Unione Sovietica quando aveva sette anni: lei ucraina costretta a lasciare la sua terra che uno degli accordi seguiti alla seconda guerra mondiale cedeva alla Polonia. A 78 anni si ritrova di nuovo con la vita travolta dalle decisioni del Cremlino. «Ma non odio i russi – confida –. Se potessi, me ne andrei. Ma qui ho anche mia figlia. La pensione e gli aiuti pubblici ci permettono di resistere. Siccome vengono aiutata, anch’io aiuto chi fa fatica». La solidarietà come risposta alla brutalità.
La Messa con il vescovo ausiliare di Donetsk, Maksim Ryabukha, per la sua prima visita pastorale a Kramatorsk - Giacomo Gambassi
Il vescovo Ryabukha sceglie i giorni della Pasqua bizantina, che si celebra domenica 16 aprile, per la sua prima visita pastorale. Mille chilometri in auto pur di incontrare tredici fedeli e i loro preti. Ma Kramatorsk è anche una delle città più vicine a Donetsk dove lui non può entrare perché occupata. «C’è bisogno di portare l’affettuoso abbraccio del Signore alla gente di una delle diocesi che può soffre per l’aggressione – riflette –. La guerra non mette in pausa la vita. E serve ribadire che nella prova Dio non ci abbandona».
Il memoriale della strage degli sfollati alla stazione di Kramatorsk - Giacomo Gambassi
Anche i treni sono tornati. Per dire che la città vive, nonostante tutto. E non dimentica. Lungo il primo binario mani anonime hanno lasciato peluche e angeli in stoffa bianca sulla recinzione. È il memoriale della strage degli sfollati avvenuta un anno fa, l’8 aprile 2022, quando in 58, fra cui dieci bambini, vennero uccisi da un razzo piombato in mezzo alla folla che si accalcava alla stazione per lasciarsi alle spalle l’avanzata russa. «Potevo esserci anch’io con mia figlia e mio nipotino. Eravamo lì pochi giorni prima, in fuga dal nemico», racconta Victoria Krevsciuk. È di Pokrovsk, cinquanta chilometri più a sud. «Ma Kramatorsk era ed è la stazione che ci collega al resto del Paese. Ed è stata la nostra salvezza all’inizio del conflitto». Da uno dei pochi treni sul tabellone scendono Liubomyr Sakunk e Hryhonii Khodynchak, 21 e 19 anni. Sono seminaristi e hanno chiesto di passare la Pasqua sotto le bombe. «Vorrei anche rivedere mio padre», spiega Hryhonii. È un soldato di stanza a Bakhmut. «Si è arruolato un anno fa. Gli ho detto che sarai arrivato fino al fronte per salutarlo. Non sarà possibile, mi ha fatto sapere. E forse non riuscirà neppure a passare di qui. Ma desidero comunque essergli accanto per le feste».
Un edificio colpito da un missile a Kramatorsk - Giacomo Gambassi