Joe Biden e Kamala Harris lanciano la sfida - Ansa
I punti a favore
Il vantaggio di Biden su Trump non è più quello stellare di qualche giorno fa e in ogni caso è un dato ingannevole. Perché non sta a dimostrare quanto l’elettorato americano preferisca il candidato democratico a Donald Trump, bensì quanto trovi insopportabile l’eventualità che il presidente possa essere rieletto. Quel distacco insomma è un voto contro Trump, non un voto pro-Biden. Ed è sul rigetto nei confronti di un personaggio ondivago, contraddittorio e autoritario come il presidente che il ticket democratico può avere concrete speranze di vincere.
Contro Trump giocano l’effetto devastante della pandemia (a tutt’oggi oltre 5,3 milioni di casi, 169mila decessi), i ritardi, le esitazioni e le menzogne sulle misure adottate, i riflessi sull’economia. A suo favore non giova nemmeno la politica di contenimento della Cina e l’intesa fra Israele e le monarchie del Golfo nel mutato assetto geopolitico mediorientale in quanto l’elettorato repubblicano – che è prevalentemente bianco e arroccato nel Midwest e nella Bible Belt – guarda più ai dati sull’occupazione che ai risultati di politica internazionale. E qui Trump è in vantaggio su Biden: i dati del Dipartimento del Lavoro evidenziano un incremento nel mese di luglio di un milione e settecentosessantamila nuovi posti di lavoro e un calo della disoccupazione che scende al 10,2%. È il terzo consecutivo dato di crescita che fa sperare e che gioca a favore del Commander in Chief.
A suo netto sfavore c’è invece il voto per posta. Più dell’80 per cento degli elettori intenzionati a usare le poste federali per esprimere il proprio voto si dichiarano a favore di Joe Biden. Solo il 14% voterebbe per Trump. C’è una ragione, semplicissima: il voto per posta consente a svariate fasce sociali (i giovani, le minoranze etniche, le classi meno abbienti) di inviare la propria scheda senza doversi presentare al seggio, senza correre il rischio di contagio stando in coda e senza perdere una giornata di lavoro. Fasce sociali che, come s’intuisce, sono assai poco inclini a votare per Trump.
Per questo il presidente le teme. E per questo sta cercando in ogni modo di sabotare il sistema postale, negandogli i fondi straordinari che ha chiesto per fronteggiare il superlavoro che lo attende, accusandolo di essere complice nelle frodi elettorali. Il che gli è già costato un ulteriore calo della popolarità. In realtà l’intera base elettorale di Trump è preda di un malessere serpeggiante. Le ripetute minacce alla stampa gli hanno alienato anche l’appoggio del Wall Street Journal e del "New York Post", i quotidiani di Murdoch, e la fronda nei confronti del presidente lambisce ormai anche il Senato. Se grazie alla sventatezza di Trump Joe Biden conquisterà la Casa Bianca, non farà che confermare il detto popolare secondo cui i democratici vincono le elezioni presidenziali quando i repubblicani hanno deciso di perderle.
Le incognite restano
Joe Biden? He doesn’t have a lot to say (non ha un granché da dire). La battuta circola da tempo immemorabile. E non sono gli avversari repubblicani a sostenerlo e nemmeno quella nebbiosa palude in cui si annida la terrorizzata middle class americana; e neppure – e il fatto è quasi fenomenale – il vasto bacino del voto colored, quello ispanico e quello asiatico.
In buona sostanza, Sleepy Joe è privo di quell’appeal che possiedono invece le star che si avvicenderanno sul palcoscenico di Milwaukee. Personaggi come Barak e Michelle Obama, come Bill Clinton, come Bernie Sanders, come Andrew Cuomo e come i giovanissimi Alexandria Ocasio-Cortez e Pete Buttigieg, tutti quanti dotati di un carisma che il povero Biden non ha e non ha mai avuto, vaso di coccio fra otri d’acciaio. Aggiudicarsi la nomination sarà facilissimo, fare breccia nell’elettorato democratico un po’ più complicato. Il pueblo dem è vasto, disunito e soprattutto rancoroso. Quattro anni fa punì sonoramente Hillary Clinton, una sfinge di pietra luccicante come un albero di Natale che i leftist di Sanders evitarono di votare al punto che in molti addirittura le preferirono Donald Trump.
A Biden – un “brand” senza sorprese – si affianca Kamala Harris. Un’ottima scelta, lo dicono tutti, anche se il ticket misto finora non ha portato fortuna: non la portò all’ex vicepresidente di Jimmy Carter Walter Mondale, che schierò nel 1984 Geraldine Ferraro contro il ciclone Ronald Reagan (risultato: perdette in tutti gli Stati tranne il suo Minnesota) e nemmeno al governatore dell’Alaska Sarah Palin, in coppia nel 2008 con John McCain contro Obama.
La Harris per la verità ha più frecce al proprio arco rispetto allo smunto arsenale di Joe Biden: come ex procuratore distrettuale a San Francisco ha mostrato un pugno di ferro contro la microcriminalità non dissimile da quello sfoderato da Rudolph Giuliani a New York. Ma in molti temono che in epoca di Black Lives Matter abbasserà il rigore di un tempo per non sembrare troppo amica della polizia. Il che farà perdere voti a quell’elettorato tanto mobile che sta in cima alla schiuma dei sondaggi, quella marea morbida capace di cambiare idea all’ultimo istante se sapientemente vellicata sul piano delle emozioni: la platea ideale per un giocatore professionista come Donald Trump, che sull’emotività gioca quasi sempre le proprie carte.
Il duo Biden-Harris farà fatica anche a far breccia fra coloro che temono un ritorno massiccio all’Obama-care, la generosa ma costosissima riforma sanitaria che ha svuotato le tasche della classe media arricchendo solo le assicurazioni. E soprattutto dovrà vedersela con tutti coloro che non hanno smesso di coltivare il sogno trumpiano di fare di nuovo grande l’America. Senza un salto di qualità e senza l’apporto massiccio della rete (con il lockdown diventa fondamentale) Joe Biden e Kamala Harris sono destinati a perdere. Come regolarmente accade ai dem quando sono senza idee.