Feriti sistemati su letti di fortuna fuori dall'ospedale di Les Cayes, Haiti - Ansa/Epa
Con una pala, un bastone, spesso a mani nude. Da due giorni, la stretta lingua di terra che forma l’estremità occidentale di Haiti, è un brulicare di donne e uomini ricurvi sulle macerie, rimosse pezzo a pezzo. Ora dopo ora si riducono le possibilità di trovare ancora in vita le migliaia e migliaia di dispersi nel sisma di 7.2 gradi Richeter che sabato ha colpito l’isola. E, al contrario, aumenta l’eventualità di essere sferzati da una nuova sciagura.
La tempesta tropicale Grace, declassata a “depressione”, avanza corre lungo il Mar dei Caraibi. Ieri era a meno di 500 chilometri dalla capitale, Port-au-Prince. Oggi, le sue piogge torrenziali dovrebbero flagellare l’area terremotata: i tre dipartimenti di Sud, Nippes e Grand Anse, dove risiede il 16 per cento degli undici milioni di abitanti.
Almeno 1.300 sono morti per i crolli provocati dalle scosse, 5.700 sono rimasti feriti, oltre 27mila edifici sono stati distrutti o danneggiati, insieme a ponti, strade, ospedali, scuole e chiese. Si tratta di un bilancio assolutamente provvisorio: tanti, troppi mancano all’appello. Impossibile proseguire le ricerche in pieno temporale. L’imperativo è, dunque, fare in fretta. Non è facile.
I primi soccorsi ci hanno messo quasi un giorno per percorrere i circa 150 chilometri che separano Port-au-Prince dall’Ovest. Colpa, certo, del pessimo stato delle strade e degli smottamenti provocati dalle scosse. C’è, però, anche un ulteriore ostacolo. Per raggiungere il sud-ovest, dove si trova Les Cayes, la città più ferita, occorre attraversare il sobborgo di Martissant, alla periferia della capitale.
Un’area off-limits fino a domenica quando l’Onu è riuscita a negoziare un corridoio umanitario con le gang che controllano il territorio. Gruppi di sbandati, giovani e spesso giovanissimi, pesantemente armati e molto violenti.
Negli ultimi anni di crisi e vuoto istituzionale si sono moltiplicate: se ne contano 76 nella sola capitale. Le più potenti stanno a Martissant. Alla fine, secondo quanto ha informato la responsabile dell’Agenzia delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, Anna Jeffreys, si è trovato un accordo: il passaggio sicuro per due convogli al giorno. Il primo è partito domenica, portando materiale medico vitale per gli ospedali delle zone sinistrate, al collasso. Il sistema di salute haitiano è quasi inesistente. Secondo la Banca mondiale, ci sono due medici ogni 10mila abitanti, in Italia sono 39. La media, inoltre, nasconde profonde disparità territoriali. La gran parte degli operatori sanitari è concentrata a Port-au-Prince.
Nell’intera regione occidentale ci sono appena una trentina di medici. I chirurghi non più di una decina. Oltretutto molti devono fermarsi per mancanza di garze, medicine, anestetici, attrezzature. Gli ospedali sono stati, inoltre, danneggiati. Alla clinica General di Les Cayes, i neoperati sono stati sistemati sul patio, ritenuto più sicuro delle stanze con crepe profonde sui muri. Addirittura, molti pazienti sono stati curati direttamente all’aperto. E, più volte, si è dovuto scegliere a chi dare assistenza per mancanza di forze.
Grazie alle eliambulanze e all’apertura del passaggio terrestre, alcune decine di feriti sono stati portati nella capitale. Ma i mezzi di trasporto sono scarsi. «Da noi ne sono già arrivati quindici. E domani partirà un’équipe di nostri medici per portare soccorsi nell’ovest», racconta padre Antonio Menegon, responsabile delle missioni camilliane nell’isola, dove l’ordine guida uno dei principali ospedali della capitale.
La Chiesa tutta, nonostante le perdite subite – le cattedrali di Les Cayes e Jeremie sono state distrutte, almeno un sacerdote è morto nel crollo dell’arcivescovado e il cardinale Chilby Langlois è stato ferito, decine di parrocchie sono crollate – cerca di alleviare le sofferenze della gente. «L’intera rete Caritas sta partecipando alle operazioni di coordinamento», ha detto Jean-Hervé François, direttore di Caritas Haiti, in prima linea insieme a Caritas italiana e Caritas Internationalis.
Il governo del premier Ariel Henry, in carica dal 20 luglio dopo l’omicidio del presidente Jovenal Moïse, ha riconosciuto la lentezza nei soccorsi e ha promesso di accelerare. Haiti, però, Paese più povero dell’Occidente, da sola non ce la può fare.
Da qui il forte appello al mondo lanciato da papa Francesco, al termine dell’Angelus di domenica. «Desidero esprimere la mia vicinanza a quelle care popolazioni colpite duramente dal sisma. Mentre elevo al Signore la mia preghiera per le vittime, rivolgo la mia parola di incoraggiamento ai sopravvissuti, auspicando che verso di loro si muova l’interesse partecipe della comunità internazionale. La solidarietà di tutti possa lenire le conseguenze della tragedia!», ha detto.
Da Usa, Cuba e Cile sono già arrivate le prime squadre di emergenza. Nel frattempo il tempo corre. E l’imperativo resta fare in fretta.