Quando i tempi si fanno calamitosi – e le minacce si moltiplicano attorno a una comunità – è naturale pensare di riunirsi in un luogo sicuro. Chiedere non solo protezione fisica allo Stato, ma un gesto politico più forte, visibile e duraturo. È quanto sta avvenendo in diversi Paesi del Medio Oriente per le comunità cristiane, oggetto da troppo tempo di una persecuzione sempre più violenta e brutale da parte di movimenti estremisti islamici e settari. In Pakistan gli attacchi, le minacce, le uccisioni, le prevaricazioni sono ormai una tetra costante da anni; nonostante le promesse dei fragili governi di Islamabad, stanno anzi aumentando d’intensità.
Non sorprende quindi che esponenti politici cristiani di quel Paese abbiano rilanciato la richiesta di creare una provincia separata all’interno del Punjab – la maggiore delle quattro province in cui è suddiviso il Pakistan e ove vive il maggior numero di cristiani – per dare una casa «alla nazione cristiana», come scrive il Congresso cristiano pachistano. Il progetto è simile a quello proposto da alcuni politici in Iraq, ove le comunità cristiane hanno sofferto vessazioni ancor peggiori: creare un’enclave protetta, separata amministrativamente e riconosciuta politicamente. Una provincia cristiana, quindi, guidata da cristiani e che possa godere di finanziamenti certi e in grado di assicurare quella protezione finora mancata.
Apparentemente una scelta ragionevole: i cristiani in Pakistan sono milioni, anche se i censimenti ufficiali li sottostimano fortemente a solo il due per cento della popolazione totale. Ma in realtà, se si guarda al medio-lungo periodo, una scelta sicuramente sbagliata, che aggrava i problemi di quelle comunità sotto l’apparenza di una soluzione.
Politicamente, significherebbe infatti ghettizzare ancora di più i cristiani, rinchiudendoli in una enclave, magari concessa nelle aree più aride e povere del Punjab. Vorrebbe dire spingere centinaia di migliaia di cristiani a sradicarsi dalle città e dai villaggi in cui vivono da generazioni per migrare nella nuova provincia, magari obbligando musulmani o fedeli di altre religioni ad abbandonare i territori concessi ai cristiani. Un mix perfetto per scatenare nuovo odio, alienazione e sentimenti di vendetta. Inoltre, una provincia cristiana sarebbe un bersaglio ancora più facile e di grande impatto mediatico per quei movimenti violenti che oggi si accaniscono contro i villaggi cristiani o i singoli fedeli. Il classico vaso di coccio esposto alle instabilità e alle lotte intestine che da sempre dilaniano il Pakistan, o la pedina facilmente sacrificabile da governi in difficoltà per riconquistarsi il consenso dei partiti radicali islamici.
Insomma, se si vuole garantire un futuro alle diverse comunità – cattolica, protestanti, evangeliche – e frenarne la diaspora, allora la strada da percorrere è ben altra. Essa passa dalle pressioni internazionali sul governo di Islamabad perché riveda quelle leggi che esaltano il settarismo e si muova con coraggio contro i partiti e i movimenti più radicali, fomentatori d’odio. E passa dal sostegno, culturale, politico, umano e finanziario alle comunità cristiane.
Ma anche a livello religioso, la proposta non è condivisibile: i cristiani hanno sempre avuto l’ambizione evangelica di essere il «sale della terra» in cui vivono. In Pakistan, per fare un esempio, le scuole cattoliche e protestanti sono da oltre un secolo un riferimento sicuro per chi voglia fornire un’istruzione adeguata ai propri figli. Milioni di pachistani si sono formati in quegli istituti, fra cui molti che oggi compongono l’élite politica e amministrativa del Paese. Le chiese e i centri culturali collegati costituiscono parte attiva e integrante del tessuto sociale pachistano: lacerare il legame che esiste fra le comunità e il loro territorio, per inseguire un’illusione politica, non darà loro un futuro migliore.