lunedì 12 agosto 2024
Sale la pressione staunitense ed europea ma l'azione iraniana contro Israele sembra imminente. Ultime ore per salvare il possibile negoziato e il futuro della regione
Uno degli edifici bombardati a Gaza

Uno degli edifici bombardati a Gaza - Ansa

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Un giorno ancora per salvare il negoziato su Gaza e il destino di un’intera regione. Mentre l’esercito israeliano alzava al livello massimo per l’attacco iraniano, dato ormai per deciso e imminente, il presidente Biden ha chiamato i leader di Francia, Germania, Italia e Regno Unito. A Teheran il conto alla rovescia è ripreso, dopo un apparente sospensione. E il 15, a Doha o al Cairo, dovranno vedersi i negoziatori e gli emissari di Israele e Hamas.

In tarda serata, l’ennesima doccia fredda. «Due soldati (di Hamas) assegnati alla guardia dei prigionieri hanno sparato a un prigioniero sionista, uccidendolo all’istante, e hanno anche ferito gravemente due prigioniere», ha detto Abu Obeida, il portavoce dell’ala militare di Hamas, senza fornire i nomi dei rapiti. Delle due donne «si stanno prendendo cura per cercare di mantenerle in vita», ha aggiunto senza aggiungere altri dettagli. A differenza di altre analoghe uccisioni tenute nascoste, Hamas stavolta ha divulgato l’informazione proprio mentre è in bilico la riapertura del negoziato. Una scelta che allunga altre ombre sulle reali intenzioni di Sinwar.

Che si stia raggiungendo il punto di non ritorno lo si è capito prima dalla nota congiunta dei Paesi contattati da Biden, «che chiedono all’Iran di fare un passo indietro», e poi dalla minaccia a Israele, arrivata direttamente dalla Casa Bianca. Una fonte diplomatica ha riferito al quotidiano israeliano Haaretz come l’Amministrazione Biden, che finora ha attribuito esclusivamente ad Hamas la colpa della paralisi nei colloqui, è al limite della pazienza: «Il comportamento del primo ministro Netanyahu potrebbe portare gli Stati Uniti ad accusarlo pubblicamente di aver danneggiato i colloqui e di aver impedito il rilascio degli ostaggi», ha riferito la fonte. Da Washington nessun commento a questa notizia. E nessuna smentita. Ma non è stata la sola ragione di irritazione per il premier israeliano. Poco dopo è trapelato il contenuto di una riunione al calor bianco durante una seduta della commissione parlamentare israeliana per gli Affari Esteri. Il ministro della Difesa Yoav Gallant, l’esponente di governo più vicino agli umori dei militari, si è scagliato contro la retorica del primo ministro. «Sento parlare di “vittoria assoluta” e altre sciocchezze», ha detto in particolare riferendosi alla promessa di sradicare definitivamente e militarmente Hamas dalla Striscia di Gaza.

Il Likud, partito saldamente nelle mani di Netanyahu, ha chiesto attraverso alcuni parlamentari il licenziamento di Gallant. E il capo del governo nel pomeriggio ha fatto diramare un comunicato stampa nel quale il ministro della Difesa, uomo chiave nel momento in cui si fanno più vicine le minacce dell’Iran e aumenta la pressione dal Libano meridionale, quando a Gaza Hamas è tutt’altro che debellata, non viene indicato semplicemente come un “critico” dell’azione di governo: «Se Gallant adotta una narrativa anti-israeliana, danneggia – è la reazione di Netanyahu – le possibilità di raggiungere un accordo sugli ostaggi». Accuse nei termini e nei toni solitamente riservate ai nemici di Israele. «Anche Gallant è vincolato dalla “vittoria assoluta”», insiste il premier rivendicando l’inno di battaglia che il ministro della Difesa aveva bollato come «sciocchezze». Non bastasse, Netanyahu ha sostenuto che Gallant invece «avrebbe dovuto attaccare» il leader di Hamas, Yahya Sinwar, «che si rifiuta di inviare una delegazione ai negoziati e che era e rimane l’unico ostacolo all’accordo sugli ostaggi».

Il bisticcio è avvenuto mentre Israele si sta preparando a un possibile attacco di Teheran e degli Hezbollah libanesi filo-iraniani. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ieri ha provato a far ragionare la diplomazia iraniana con una lunga telefonata al ministro degli Esteri. A chi gli ha chiesto se ha avuto la sensazione di un ravvedimento degli Ayatollah, abbia avuto la sensazione che l’attacco iraniano sia imminente, Tajani ha risposto: «Il ministro ha ribadito il ministro diritto dell’Iran a reagire».

Ieri mattina dal Libano meridionale sono stati scagliati in breve sequenza una trentina di razzi e droni, in un attacco che diversi analisti locali indicano come il tentativo di studiare la capacità di risposta della difesa israeliana.

I Paesi che mediano su Gaza (Usa, Egitto, Qatar) hanno fatto sapere ad entrambe le parti che non esiteranno a incolparle pubblicamente del fallimento dei negoziati, se non si raggiungerà una svolta nel vertice previsto per giovedì a Doha o al Cairo, in quello che è considerato l’ultimo tentativo per ottenere un cessate il fuoco duraturo. Sinwar, con dichiarazioni sibilline affidate ai suoi fedelissimi, fa sapere che Hamas non intenderebbe sedersi al tavolo delle trattative, perché superflue. L’organizzazione sarebbe disposta ad accettare il piano Usa del maggio scorso senza neanche dover trattare. Un passo in avanti: mai Hamas ha riconosciuto pubblicamente il lavoro diplomatico di quello che i padrini in Iran chiamano ancora «grande satana». E un passo di lato: Sinwar rilancia la palla nel campo di Netanyahu, sapendo di poter contare sulle spaccature tra chi vorrebbe mediare e chi, come i ministri dell’ultradestra, chiede di stracciare il negoziato e «schiacciare Hamas».

L’accordo in tre fasi prevede, all’inizio, il ritiro dell’esercito israeliano dalle aree principalmente popolate, dunque si procederebbe allo scambio tra «un certo numero di ostaggi tra cui donne, anziani, feriti» e «centinaia di detenuti palestinesi», aveva spiegato la Casa Bianca.

Israele fa sapere che vorrebbe rivedere alcuni punti. Hamas, a sorpresa, si è detta disposta a firmare subito, senza chiedere altro.

E in una terra dove nessuno può fidarsi di nessuno, molti guardano il cielo sperando che nell’attesa di sapere se il negoziato andrà in porto, da Teheran non arrivi il colpo mortale contro l’ultima speranza di pace.

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