Un soldato delle Forze di difesa popolari con un commilitone ferito nel combattimento con l'esercito del Myanmar - Reuters
Mentre è stato posticipato da ieri al 27 dicembre il verdetto per il processo per detenzione illegale di ricetrasmittenti a carico di Aung San Suu Kyi che potrebbe costarle una condanna a tre anni di carcere – dopo quella a quattro anni per incitamento al dissenso verso i militari golpisti e violazione delle norme di tutela anti-Covid decisa il 6 dicembre – dal Myanmar arrivano notizie di massacri finora ignorati all’estero.
Sarebbero almeno quattro le uccisioni di massa di civili da parte dell’esercito confermate dalle informazioni raccolte dall’emittente britannica "Bbc" che ha pubblicato la notizia ieri anche sul suo sito. Una quarantina le vittime, seppellite in fosse comuni, secondo le testimonianze dirette accompagnate da videoclip e foto ripresi con telefoni cellulari e smartphone. I massacri sono avvenuti nel luglio scorso a Kani, municipalità del distretto di Sagaing (dove il 7 dicembre erano già stati ritrovati 11 cadaveri carbonizzati), tra quelli più interessati dalla reazione popolare contro la giunta militare al potere e dalla repressione. Nel villaggio di Yin, dove al rastrellamento avrebbero partecipato anche soldati 17enni (a conferma che continua la pratica dell’arruolamento di combattenti minorenni nelle forze armate birmane, spesso in modo coatto), almeno 14 uomini sarebbero stati percossi e torturati a lungo prima che i loro corpi fossero abbandonati in un’area boschiva. In precedenza anche qui, come negli altri villaggi, gli uomini erano stati separati dalla donne. Non un’azione bellica indiscriminata, quindi, come i bombardamenti aerei e di artiglieria in corso in altre aree, ma una brutalità che vuole terrorizzare la resistenza della popolazione civile e minare la determinazione dei combattenti.
Anche questo, insieme alla crescente reazione delle Forze di difesa popolari e delle milizie etniche alle azioni militari del regime, spiega il crescente numero di profughi, almeno 300mila quelli interni, e negli ultimi giorni il tentativo di molti di etnia Karen di cercare rifugio oltreconfine, in Thailandia. Una frontiera ufficialmente chiusa, anche per le necessità di frenare il contagio da Covid-19, ma al momento comunque permeabile. Sono 5.000 finora i Karen in fuga che sono riusciti a passare, segnalano le fonti della resistenza, ma altri 10mila sarebbero in attesa sulla sponda birmana del fiume Moei.