Il presidente della Cop26, il britannico Alok Sharma - Reuters
Il volto provato del presidente Alok Sharma, che a stento tratteneva le lacrime alla fine di un'estenuante trattativa, prolungatasi di ventisette ore oltre la chiusura, con tanto di colpo finale dell'India per «annacquare» lo stop al carbone, è diventata l'immagine simbolo della Cop26. I giornali e le tv internazionali l'hanno immortalata e diffusa ovunque. Sicuramente fa effetto. E rappresenta la frustrazione del grande stratega del summit Onu sul clima per non essere riuscito a strappare di più al fine i contenere l'aumento della temperatura entro la soglia di equilibrio di 1,5 gradi. Ce n'è un'altra altrettanto significativa sfuggita ai più.
E ritrae i negoziatori dell'Oceania con le lacrime agli occhi mentre uscivano dalla plenaria. Per loro, la battaglia non è per piegare i sabotatori India e Cina, ma per il diritto a non annegare. Ora, non fra dieci o cent'anni. Il medesimo doloro impotente lo mostravano i volti dei delegati del Sud povero del pianeta che soffrono sulla propria carne le conseguenze del cambiamento globale: inondazioni, siccità, tifoni violentissimi. Sono venuti, come a ogni Cop, per offrire la loro testimonianza nella speranza di risvegliare il Nord sonnolento.
E per chiedere a quest'ultimo di schierarsi al suo fianco nella lotta per la sopravvivenza comune. Realmente, però, non a parole. Il che significa ridistribuire in modo equo i costi dell'impatto climatico, riconoscendo il giusto finanziamento per adattarsi ad esso e per riparare le perdite subite. Europa e Stati Uniti, avanguardia dichiarata del fronte verde, però, hanno preferito, per l'ennesima volta, giocare da soli. E hanno perso. Non dal punto di vista diplomatico. Con tutti i limiti, il Glasgow climate pact resta comunque un passo avanti nel percorso verso un futuro più sostenibile. La loro sconfitta riguarda la capacità di fare il salto di qualità. E questo si può fare solo insieme. Tutti, ricchi e poveri.