Poche ore prima che le milizie taleban facessero il loro ingresso a Kabul, già prevedeva che la caduta della capitale sarebbe avvenuta senza l’uso delle armi, per via di un qualche accordo di resa, anche se di certo non si aspettava che potesse avvenire così repentinamente. Parte da lontano, Ibraheem Bahiss, esperto di questioni afghane all’International Crisis Group, e torna al 2014 per spiegare quali retroscena siano andati profilandosi dietro al gigantesco e drammatico domino che ha travolto, una dopo l’altra, le maggiori città afghane, lasciando dietro di sé civili atterriti, intrappolati o in fuga.
Come è stata possibile un’avanzata tanto rapida? Davvero il ritiro delle forze armate occidentali ha segnato il destino della capitale e del resto del Paese?
Il supporto delle truppe Usa e internazionali era di certo cruciale e la partenza ha demoralizzato i soldati afghani, già fiaccati da anni di corruzione e salari non pagati. Ciò detto, non concordo con chi attribuisce il collasso delle città interamente al ritiro. I taleban registrano salde conquiste sin dal 2014, hanno consolidato il controllo di molte aree rurali, relegando le forze di Kabul in qualche immobile nel centro di distretti che il governo diceva di controllare. Gli Usa parlavano di stallo, ma non era così. Da maggio, poi, i miliziani fondamentalisti hanno impiegato una nuova strategia: hanno iniziato a offrire accordi di resa alle guarnigioni governative isolate, in cambio di lasciapassare, vie di fuga sicure. Nuove conquiste, dunque, senza combattere.
Ed è cominciata l’estate dell’avanzata-lampo.
Da fine giugno si è aperto un fronte molteplice, attacchi contro diversi capoluoghi di provincia. E le forze di sicurezza speciali ad agosto non sono state più in grado di rispondere ad ogni singolo attacco, con il risultato che le forze locali sono state lasciate sole a combattere per loro stesse.
I negoziati di resa sono avvenuti anche per i grandi centri urbani?
In alcuni casi c’è stata resistenza, ma a un certo punto anche qui si è giunti ad accordi di cessione. Dunque, non sempre e non necessariamente i governativi sono stati sopraffatti dalle armi in ogni singola area. Il punto è che si sono trovati isolati, tagliati fuori dalle linee di approvvigionamento. Dopo Kunduz si è verificato un effetto valanga su Ghazni, Herat, Kandahar.
Quanta responsabilità è imputabile al governo di Kabul?
La verità è che la sua legittimità politica si è andata erodendo nel tempo, soprattutto per la corruzione endemica. Il presidente Ghani si è concentrato sul rafforzamento del governo centrale a spese dei centri periferici e degli attori regionali, alienati ed emarginati. Diverse guarnigioni sono state lasciate da sole a difendersi per anni, tra salari che stentavano ad arrivare e casi di soldati feriti che non riuscivano ad essere evacuati e dunque curati. Si sono creati vuoti che i taleban sono stati capaci di sfruttare.
Dal tavolo di Doha alle azioni sanguinose sul terreno, quanto è compatto (e coerente) il fronte taleban?
Si è discusso della loro frammentazione per due decenni, ma io non credo che mancasse, né manchi, unità di intenti tra negoziatori taleban a Doha e miliziani sul terreno. Che al tavolo delle trattative fossero o no genuini e sinceri non lo sapremo mai, perché non si era ancora giunti a discutere di precisi contenuti. Dentro il movimento esistono divisioni e interessi non coincidenti, ma i taleban hanno avuto sufficiente coesione per sedersi a trattare e, come si vede, sufficiente unità nella catena di comando per una campagna militare.
Non sembra, però, esserci uniformità fra le prime disposizioni per gestire le città conquistate.
La confusione rispetto alle reali posizioni e intenzioni dei taleban deriva dal fatto che i loro messaggi sono sempre stati ambigui su questioni come l’istruzione delle bambine o il lavoro per le donne. Durante i negoziati citavano in continuazione la “conformità alle norme islamiche e ai valori afghani”, lasciando deliberatamente nel vago il reale significato di queste parole. Come movimento di insurrezione, per scelta, negli ultimi anni è stato dato, poi, un certo margine ai comandanti locali nel definire le politiche nei diversi territori conquistati. Oggi sappiamo dell’intenzione dei leader di incontrarsi per affrontare la grande questione della governance, consapevoli della necessità di uniformare le politiche. Sul terreno, informalmente, ci viene detto che su certe questioni i comandanti locali non possono decidere, perché la leadership “non ha ancora deliberato”.
La Nato ha ventilato fino all’ultimo la minaccia dell’isolamento diplomatico: davvero si pensa che i taleban siano così interessati a legittimazione e aiuti occidentali?
Durante le trattative di Doha e appena dopo l’accordo con gli Usa (febbraio 2020, ndr) c’era ancora una certa attrazione in quella direzione. Tra il 2020 e quest’anno, però, i taleban si sono riposizionati volgendo lo sguardo verso Cina, Iran, Pakistan. Puntano a una legittimazione regionale, se quella internazionale non arriverà. Cercano un modello basato sugli affari e sugli investimenti da attirare nel Paese. Se però loro guardano a Est, la popolazione in fuga si dirigerà a Ovest, verso l’Europa, che si troverà ad affrontare un vero dilemma: attrezzarsi per l’arrivo di nuovi migranti ai propri confini o scendere a patti per prevenire l’ondata di rifugiati, correndo il rischio di legittimare un governo radicale come quello taleban?